Logo dell'UIC Logo TUV

Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Kaleîdos

torna alla visualizzazione del numero 6 del Kaleîdos

Numero 6 del 2022

Titolo: Valentina Cortese. La ragazza di campagna

Autore: Mariella Boerci


Articolo:
(da «F» n. 8 del 2022)
Figlia del peccato, fu cresciuta da una famiglia di contadini. Quell'esperienza l'accompagnò a Hollywood, nei grandi teatri e nell'amore
Era una Diva. Non l'ultima forse, ma Valentina Cortese, classe 1923, emanava quell'aura divina che circonda i miti. Evanescente sotto il fard gessato, lei si schermiva tra fruscii di vesti preziose che indossava fin dal primo mattino e la rendevano ancora più irraggiungibile e lunare: «Io divina? Suvvia! Ogni tanto, con molta ironia, faccio finta di esserlo, perché in fondo mi fa comodo, mi protegge, ma dentro di me sono una donna semplice, concreta: vengo dalla campagna, le mie radici contadine mi mantengono con i piedi per terra». Era orgogliosa, Valentina, di quelle radici. Lo testimoniano i foulard di chiffon, cento per ogni colore, che portava calati sulla fronte fin quasi agli occhi verdi e liquidi, in omaggio alle contadine che li indossavano «per nascondere il sudore, le tristezze, o chissà, le loro paure». «El riott», così si chiamava in dialetto, era considerato segno di pudore e orgoglio femminile. L'aveva indossato anche lei, bambina, per proteggersi dal sole nei campi. E dopo, in città, per Valentina era diventato «una carezza». Una carezza e una corazza per la vita.
Figlia indesiderata
La vita, per lei, era cominciata per il verso sbagliato. Figlia «del peccato», come si diceva un tempo, era stata partorita da una signorina di ottima famiglia per nulla disposta a rinunciare alle sue aspirazioni di concertista, né, soprattutto, a perdere l'immacolata reputazione che in futuro le avrebbe consentito di trovare un buon partito. L'indesiderata bambina, dunque, era stata «data a balia» ancora in fasce a una modesta coppia di contadini di Agnadello, vicino Cremona. E lì era cresciuta, «con la mania di recitare già a partire dai tre anni», sentendosi amata come una figlia e una sorella da «mamma» Rina, «papà» Giuseppe e dai suoi due fratelli di latte, Luigino e Uliva.
Quando la madre biologica, conosciuta da lei come «zia Olga», andava a trovarla, Valentina si nascondeva nello sgabuzzino. «Non volevo che mi portasse via neanche per un solo giorno. Il mio mondo era tutto lì, in quella campagna lombarda dove avevo fatto i primi passi tra le nebbie, i campi di grano, il caldo delle stalle, i carrozzoni di fieno, l'odore del latte e delle mucche, il sonno al momento del rosario. E dove, nella miseria, che non sapevo miseria, sono stata sempre molto felice anche se mangiavo pane ammuffito».
Dalle stalle alle stelle
Quando Valentina aveva sette anni i nonni materni erano andati a riprenderla e l'avevano portata a Torino per darle un'educazione appropriata. La nuova casa l'aveva lasciata a bocca aperta: poltrone dorate, lampadari di cristallo, statue, velluti. «Credevo che mi avessero portata in chiesa». E poi abiti di sartoria, scarpine su misura, «prime» teatrali, scuole private, vacanze lussuose a Stresa nella villa di famiglia. Valentina si sentiva come Alice nel Paese delle Meraviglie ma, se pure la nonna era diventata per lei una vera madre, non c'era notte che non sognasse la tenera semplicità dei suoi primi anni poveri.
I venti di guerra che spiravano nel 40 avevano convinto i nonni a trasferirsi nella villa di Stresa. Lì, Valentina avrebbe fatto un incontro fatale. «Andavo in bicicletta a vendere biglietti per uno spettacolo benefico. È stato uno stordimento che è durato tutta la vita». Lo «stordimento» si chiamava Victor de Sabata, leggendario direttore d'orchestra. Lei aveva 17 anni e frequentava il liceo. Lui 31 di più, era sposato e aveva due figli. «Ho perso la testa e ho lasciato tutto per seguirlo a Roma a vivere con lui». La testa l'aveva persa anche lui: «Sei la mia alba», diceva. Ma i figli erano un pezzo della sua vita. «Victor aveva bisogno di loro e loro avevano bisogno di lui». Così aveva lasciato a loro, consapevole che «i grandi amori comportano spesso grandi dolori». Temendo ripensamenti, aveva messo fra loro l'oceano firmando un contratto con la 20th Century Fox che la inseguiva da tempo. A Hollywood aveva diviso il set con i mostri sacri del cinema, diventando l'attrice italiana più famosa d'America: «First Garbo, then Bergman, now Cortese», titolavano i giornali. Avrebbe potuto restare a Los Angeles tutta la vita, invece un bicchiere di whisky gettato in faccia a Darryl Zanuck, re della Fox che le aveva messo le mani addosso, aveva segnato la sua fine.
Era tornata in Italia, ma non da sola: fra un set e l'altro, aveva sposato Richard Basehart e aveva avuto un bambino, Jackie. «Mi illudevo di aver costruito una famiglia felice, ma Richard beveva e mi tradiva. L'ho lasciato. E mi sono tenuta Jackie».
La bambina perduta
Però c'era il cinema. Antonioni, Visconti, Zeffirelli, Fellini, Truffaut, con il quale aveva sfiorato l'Oscar. E poi il teatro, dove avrebbe vissuto una travolgente e lunga passione con Giorgio Strehler. Aveva capito subito, vedendolo, la fascinazione che esercitava su di lei, e aveva pensato di scappare: «Invece ero rimasta lì, inchiodata a quello che doveva essere evidentemente il mio destino, la mia storia con lui». La fiamma era divampata sul palco e nella vita per 15 anni, producendo capolavori come «Il giardino», «El nost Milan», «I Giganti della montagna». Un giorno lei aveva scoperto di aspettare una bambina: «Giorgio la desiderava, gli sarebbe piaciuto chiamarla Ombra. Quando la persi, si inginocchiò ai miei piedi e pianse». Si lasciarono.
Dopo di lui, lei aveva avuto ancora «amori e amanti, tanto di tutto», ma senza mai l'idea di un legame stabile. Invece, il destino. «Con Carlo eravamo vicini di casa, conoscevo sua moglie, quando è morta ci siamo avvicinati». Carlo De Angeli, industriale farmaceutico, è stato l'amore maturo: «Ci siamo sposati». La sua morte, nel 98, e, soprattutto, quella del figlio Jackie nel 2015, erano stati i colpi più duri. «Ancora un giro di clessidra e li raggiungo», ripeteva. Li ha raggiunti nel 2019 in un giorno d'estate, a 96 anni. Chiedendo di essere ricordata con una frase di Antonia Pozzi, poetessa: «Ho lasciato un'esile scia di silenzio».
Mariella Boerci



Torna alla pagina iniziale della consultazione delle riviste

Oppure effettua una ricerca per:


Scelta Rapida