Numero 5 del 2022
Titolo: Donne coraggiose
Autore: Redazionale
Articolo:
Rischio la vita in Siria
Storia di Asmae
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
«Non farti frenare dalla paura: se vuoi raccontare la Siria, fare davvero qualcosa per questo popolo, vieni qui, ora». Mohamed è un giovane attivista della città di Homs, la capitale della rivoluzione, e le sue parole in lingua araba sono il sottofondo delle mie giornate.
Sono una giornalista italiana di origini siriane. Grazie ai contatti che ho attivato con corrispondenti come Mohamed, non perdo occasione di raccontare ciò che sta accadendo in Siria.
Da quando il 15 marzo 2011 sono iniziate le manifestazioni popolari per chiedere «islahat», cioè riforme, e «hurriya», libertà, Mohamed è stato uno dei primi a mettere in rete foto e riprese video che hanno permesso al mondo di conoscere il volto censurato della realtà. Dovrei andare sul posto, sporcarmi le scarpe per scoprire quello che le agenzie non dicono, frugare tra ciò che la propaganda di regime filtra, ma sono una mamma: ho due figli, Khalil e Nur, e mi rendo conto che partire come reporter di guerra significherebbe rischiare la vita.
Le parole di Mohamed, però, mi spingono oltre il bilico della paura perché l'indifferenza politica e mediatica ha lasciato spazio a un vuoto di conoscenza che si è riempito di pregiudizi e notizie aleatorie. Voglio incontrare chi ha subito torture, stringere le mani di chi ha dovuto seppellire i propri famigliari, perdermi nei loro sguardi atrofizzati di terrore perché la verità non rimanga sepolta tra le macerie. E da madre devo trovare il coraggio di guardare negli occhi quelle donne i cui bambini sono stati vittime di violenze indescrivibili.
La mia prima volta
È l'agosto del 2013 quando volo ad Aleppo, la città d'origine dei miei genitori. Ci vado per la prima volta: sono cresciuta sapendo che andare da oppositori in un Paese con regime dittatoriale può significare consegnarsi alla morte. Da sempre, però, sogno la Siria: sono stati mio padre e mia madre a farmene innamorare con i loro racconti all'essenza di gelsomino, tra canzoni, poesie e oggetti che simboleggiano una cultura millenaria. Prima di partire come reporter ho organizzato i miei spostamenti e la permanenza stabilendo contatti con alcune associazioni umanitarie che operano sul posto, ma appena passo il confine mi rendo conto che la mia vita non è più nelle mie mani.
Arrivo di notte, tra quartieri fantasma. L'auto procede a fari spenti per il timore dei cecchini; mi lascio avvolgere dal buio: la città è priva di corrente elettrica, ci sono solo i generatori ad alimentarla, le uniche luci sono quelle degli spari o di qualche cassonetto incendiato.
Una signora viene ad accogliermi, passiamo il tempo a parlare a lume di candele, finché all'alba, tra i lamenti dei corvi, riesco a dare una forma ai suoi sospiri. Attorno a noi, decine di volontari scavano a mani nude per estrarre i corpi d'intere famiglie intrappolate tra quel che resta della loro storia.
Le giornate scorrono veloci, cerco di intervistare il maggior numero di persone e andare negli ospedali da campo dove scopro eroi silenziosi tra medici e soccorritori.
«Ho il corpo vuoto, mi hanno portato via l'anima» mi sibila una madre della città di Idlib, mentre tra i cadaveri guarda, attonita, sua figlia.
Perdo la percezione del pericolo
Di ogni sopravvissuto che incontro scatto una foto, ogni voce è un timbro nella mia coscienza, mischio il suo dolore alla mia impotenza mentre mi muovo veloce tra i posti di blocco e cambio itinerari fuggendo dal grido soffocato delle bombe. La sera mi addormento tra le esplosioni e alle prime luci mi sveglio con lo stridore di proiettili in cerca di carne, come quelli che m'inseguono nel centro storico di Aleppo, dove documento ciò che resta del millenario suq, il mercato coperto: lo zoom della mia fotocamera ha attirato l'attenzione di un soldato. Ormai da giorni ho perso la percezione del pericolo e lascio che sia l'adrenalina a guidare i miei passi: corro a perdifiato, finché il battito convulso del mio cuore è l'unico bailamme che avverto. Sono salva? La mia unica consapevolezza, ora, è di non essere altro che una pellegrina scalza sul sentiero della vita.
Torno in Italia frastornata, ammalata di nostalgia. Ho il terrore dell'oblio: apro un blog dove racconto l'orrore che ho visto con i miei occhi e sento pressante l'esigenza di raccogliere altre testimonianze per documentare l'evoluzione della situazione. È il giugno del 2014 quando decido di ripartire. Ho già rischiato di non abbracciare più Khalil e Nur, ma il mio più grande timore è che l'oblio del mondo inghiotta il dramma di un genocidio.
«Non hai paura?» mi chiedono i colleghi.
Sì, certo che ce l'ho. Non quando penso al sangue, agli arti dilaniati e ai corpi resi irriconoscibili dalle armi chimiche al cloro, l'angoscia mi sale quando la mia mente va a un orfanotrofio di Aleppo: tra quei bambini senza sorriso mi sono raggelata, perché ho avvertito un pericolo atavico per l'indifferenza con cui stiamo accettando che sia cancellata l'infanzia d'intere generazioni.
Restituiamo un futuro ai bambini
Di fronte a schiere di orfani nelle tendopoli, la mia barricata emotiva ha ceduto, ho pensato ai miei figli e mi ha colto un malore, mi hanno portato fuori, ma una parte di me è rimasta in quei loculi, fra i respiri di quegli innocenti e un'emorragia di pensieri.
Al mio rientro, grazie a un premio per giornalisti, organizzo una mostra con i miei reportage: credo che neanche le foto più truci possano risvegliare coscienze addormentate, e inoltre ciò che non si racconta, attraverso le immagini o le parole, è come se non esistesse.
Ma la realtà è una. Esiste una società civile siriana che da nove anni è vittima delle stragi del regime di Assad e dell'Isis. È un popolo che vuole vivere, che chiede il rispetto dei propri diritti umani e l'apertura di corridoi umanitari. Il mio impegno non verrà mai meno: so già che tornerò ad Aleppo, e rischierò ancora la vita. Così come so che la Siria tornerà a splendere e risorgerà dalle ceneri con la forza del suo cuore immortale.
Asmae Dachan, 43 anni, è una fotoreporter e scrittrice italo-siriana, attivista per i diritti umani e impegnata, nel dialogo interreligioso. Autrice di numerosi libri, nel 2019 è stata insignita cavaliere dell'Ordine della Repubblica. Mamma di Khalil e Num, vive a Rosora (An).