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Kaleîdos

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Numero 5 del 2022

Titolo: Sono stata violentata e i giudici non mi credono

Autore: Letizia Magnani


Articolo:
(da «Grazia» n. 11 del 2022)
Era quasi priva di sensi. I video girati mostrano un uomo che approfitta di lei. Eppure per il tribunale quella notte a Ravenna non furono commessi reati. «Ho subito un abuso mentre non potevo difendermi» dice la ragazza messa di fronte a questa inattesa sentenza. E a Grazia lancia un appello per le altre vittime come lei: «Trovate la forza di superare la vergogna e denunciate chi non vi rispetta»
«Tanto io lo sapevo che non mi avrebbero creduta». La voce che parla con Grazia è quella di una ragazza giovane. La notte fra il 5 e il 6 ottobre 2017 ha poco più di 18 anni. È fuori con amici, beve davvero troppo, «quattro o cinque bicchieri di vino e tre drink», sta male nel tragitto dal locale alla macchina, non vuole tornare a casa, farsi vedere così dalla madre. Perde i sensi. Gli amici la portano a casa della ragazza di uno dei due trentenni che sono con loro. Tutto succede in un appartamento nel centro di Ravenna, fra l'1,30 e le 4 del mattino.
La ricostruzione si trova nelle carte processuali. Quella notte terribile gli ex amici di Elena (il nome è di fantasia) la filmano e la violentano, dopo averla messa sotto la doccia fredda per farla rinvenire. È tutto documentato, ricostruito nei minimi dettagli, ci sono i video. Eppure, per i giudici i due uomini, all'epoca poco meno che trentenni, non avrebbero commesso reato con dolo. La sentenza dell'8 febbraio ha fatto scalpore e la ragazza che ha denunciato parla a Grazia. A pesare nel giudizio sono state le notizie relative alle abitudini di vita di Elena - a dire dell'ex amica presente quella terribile notte era «promiscua» - e il suo atteggiamento da ubriaca: «Abbracciava tutti», ha raccontato la testimone. A processo i due accusati, ora assolti in primo grado, si sono scusati. Uno di loro ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con Elena, ma di non essersi accorti che non fosse in grado di prestare il consenso e di difendersi.
Come si sente Elena, oggi, dopo quanto accaduto e dopo il processo? «Molto male, mi sento davvero delusa, piccola e non creduta. Ma tanto io l'avevo detto subito alla mia avvocata che non mi avrebbero creduta».
Nonostante i timori, Elena, però, quattro giorni dopo quella notte, va al Pronto soccorso: sta ancora male, si fa medicare e prende consapevolezza di quello che le è capitato. Capisce che l'hanno violentata e decide di denunciare i suoi abusatori. A Grazia dice: «Il giorno dopo non ricordavo niente, ma stavo male sul serio, mi sentivo strana e dopo tre giorni ho iniziato ad avere dei flash di quella notte e quella che credevo essere mia amica mi ha raccontato ciò che era successo. Sono andata in ospedale, nonostante la vergogna e il senso di angoscia. Ho deciso di denunciare, perché ho subito una cosa terribile, senza il mio consenso. Denunciare mi sembrava la cosa più giusta da fare, per tutelare me stessa e le altre donne. Nessuna deve sentirsi come mi sono sentita io nei giorni successivi».
Dopo la sentenza di primo grado, però, Elena non crede più tanto nella giustizia e a Grazia racconta il senso di vergogna che ancora prova. «Quando ho realizzato che ero stata violentata mentre non mi potevo difendere, ho provato incredulità perché ero con persone che pensavo amiche, poi tanta confusione in testa e nel corpo. Più capivo quello che era successo, ma un ricordo completo di quella notte non c'è, più provavo vergogna. Poi ho avuto paura, un vero senso di angoscia». Elena usa parole semplici, dirette, per raccontare quello che le è successo. «È importante il tema del consenso perché ancora molte ragazze e donne sono inconsapevoli di aver subito violenza o uno stupro». E aggiunge: «Io stessa l'ho messo a fuoco quando mi stavano visitando, allora ho ricordato l'acqua fredda sulla pelle, una sensazione brutta e la paura. È importante denunciare perché le altre ragazze come me trovino a loro volta la forza di superare la vergogna». Elena si è costituita parte civile nel processo di primo grado e quando il pubblico ministero farà ricorso alla sentenza, che sarà depositata nel giro di tre mesi, proseguirà la sua battaglia, perché sia riconosciuto anche dalla legge quanto le è accaduto quella notte.
Elisa Cocchi, l'avvocata di Elena, dice: «In dibattimento non credevo che si potesse arrivare all'assoluzione dei due imputati. I fatti sono accertati e ci sono persino i video, quindi abbiamo le prove della violenza. L'unica spiegazione possibile è che una simile sentenza sia frutto di una cultura patriarcale. In questo caso non solo c'è la parola della vittima contro quella degli aggressori - il cui reato è stato riconosciuto e la vittima è stata considerata credibile - ma ci sono addirittura dei video. Mi chiedo: una persona che subisce violenza che altra prova deve fornire, oltre a dei filmati? C'è qualcosa più di un video che attesti la violenza? In uno appare chiaro che la ragazza era ubriaca e quindi incapace di acconsentire a fare sesso. Viene violentata. Si chiede l'onere della prova alla vittima, ecco in questo caso ci sono i video. Che cos'altro ci deve essere?».
Il caso di Elena non è isolato, troppo spesso ancora le donne non vengono credute. Per Elisa Cocchi il motivo è chiaro: «Nelle aule dei tribunali c'è la stessa cultura nella quale siamo cresciuti, misogina e patriarcale. L'uomo ha sempre ragione e la donna no. L'uomo viene giustificato, qualunque azione compia. E la donna a sbagliare: perché era troppo ubriaca, perché non è stata chiara nel dire no, perché è rimasta in silenzio, non si è allontanata, non ha reagito. Perché era vestita in maniera provocante, perché in passato aveva fatto sesso liberamente. Insomma, è sempre colpa della donna. Ma questo giustifica ogni forma di violenza».
Nell'assoluzione dei due trentenni potrebbe aver contato il pregiudizio sulle abitudini della vittima. «Non so quanto abbia pesato davvero, però sono state ammesse domande sulla vita privata della ragazza non pertinenti al processo. Come se si volesse giustificare la violenza con abitudini di vita della vittima che nulla hanno a che fare con l'episodio», dice l'avvocata.
Quel consenso mai espresso
Il caso di Ravenna riporta in primo piano il tema del consenso: la giovane vittima dice di non essere stata d'accordo, i giudici non le credono. Per la legge italiana, perché venga riconosciuto lo stupro ci deve essere violenza, minaccia, inganno o abuso di autorità sulla vittima. Un'idea da molti considerata superata. La Convenzione di Istanbul, infatti, chiarisce che il consenso «deve essere dato volontariamente, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto». In America questo principio è condensato nella formula «Yes is Yes», sì è sì, che non costringe la vittima a dimostrare di essere stata abusata ma impone all'accusato di dimostrare di avere avuto il «sì» esplicito e senza ambiguità al rapporto sessuale.
Letizia Magnani



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