Numero 2 del 2022
Titolo: ATTUALITÀ- Quando una lingua muore, è un modo di intendere e di guardare il mondo che muore
Autore: Anna Buccheri
Articolo:
Le parole di George Steiner prese in prestito per il titolo vogliono ricordare che il 21 febbraio è anche la Giornata Internazionale della lingua madre istituita dall'UNESCO nel 1999.
La lingua madre è parte della persona e la definisce come la nazionalità, i valori o l'orientamento politico, tutti elementi costitutivi di una persona, bagaglio personale che non è un dato scontato, elementi posseduti o diventati con il tempo e nel tempo componenti integranti di noi. La lingua madre dà sicurezza, è il tramite che permette di comunicare, di esprimere idee, sensazioni ed emozioni, di mostrarsi per quello che si è. La lingua madre è essere immersi completamente in un contesto.
Le parole della lingua madre ci consentono inoltre di poter far ricorso all'umorismo e di rispettare i codici di cortesia, fluiscono senza sforzo o si fanno pescare una a una e combinare con cura per costruire l'ordito delle nostre narrazioni. Le parole della lingua madre si lasciano usare per le confidenze più intime descrivendo ciò che sentiamo e non facendoci sentire fuori dal discorso. Le parole della lingua madre ci rendono più consapevoli di noi stessi e di quello che siamo, a livello emotivo, mentale e cognitivo, ci indicano la nostra appartenenza e ci rendono capaci di sentirla nostra a livello profondo.
Il rapporto tra lingua e cultura è imprescindibile, essendo la lingua intrinseca alla cultura di cui è espressione e scandendo la storia del popolo che la parla. Una lingua andrebbe quindi protetta dai meccanismi che ne possono determinare l'estinzione. Secondo l'UNESCO, le lingue sono minacciate sia da forze esterne (assoggettamento militare, economico, religioso, culturale o educativo) sia da forze interne (attitudine negativa della comunità nei confronti della propria lingua). Inoltre, la prevaricazione di un popolo su un altro ritenuto inferiore implica spesso la scomparsa della lingua e delle tradizioni della popolazione sottomessa (si pensi, ad esempio, ad alcuni idiomi dei nativi australiani). È un fatto che determina conseguenze gravi, dal momento che la lingua è un patrimonio non tangibile che però conserva nel tempo storia, letteratura, quotidianità, scoperte scientifiche e impieghi tecnici di un popolo, ed è il suo uso a permetterne la sopravvivenza.
Gian Luigi Beccaria in Elogio della lentezza del 2004 sostiene che nell'epoca della velocità e della simultaneità il tempo della lettura, lento e distanziante, consente di sviluppare una coscienza critica, civile e razionale a partire dalle parole del passato e del presente, allontanandosi dall'immediatezza, formulando giudizi sul mondo e riconoscendo ciò che accade.
Quella della lingua italiana è essenzialmente la storia di una lingua scritta, fatta di libri. La trasformazione politica, economica e sociale, dall'Unità in poi e per tutto il Novecento, è epocale e ha conseguenze rilevanti sulla lingua nazionale che da lingua di libri, parlata da una piccola minoranza (nel 1861 circa il 10% della popolazione) diventa lingua parlata da oltre il 90% degli Italiani. Il processo di italianizzazione avviene in tempi, forme e modi diversi. L'unificazione politica comporta infatti esercito, amministrazione e scuola unitari, in gran parte centralizzati, e quindi diventa necessario usare un'unica lingua comune per comunicare con gli altri. Un ruolo fondamentale giocano anche l'industrializzazione e i fenomeni migratori.
Milioni di Italiani si spostano dalle campagne e dalle montagne alle città e dal Sud al Nord; l'emigrazione all'estero porta circa 30 milioni di dialettofoni, tra il 1880 e il 1910, fuori dai confini della penisola; i grandi mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, televisione) mettono in contatto sempre più Italiani, prevalentemente dialettofoni, utilizzando un italiano parlato pubblico ormai assimilato.
Tullio De Mauro, in Storia linguistica dell'Italia unita (la prima edizione è del 1963, l'ultima revisione è del 2014), studia il graduale ridursi dell'analfabetismo, la lenta conquista di una scolarizzazione, i fattori che favoriscono un effettivo avvicinamento alla lingua unitaria: la scuola, soprattutto, ma anche la scelta delle donne di preferire l'italiano per l'educazione dei figli, la burocrazia e il servizio militare (non solo la convivenza di soldati delle diverse regioni linguistiche italiane, ma anche fattori apparentemente marginali come le scuole reggimentali o la guerra). È un agente importante anche la progressiva affermazione dei grandi mezzi di comunicazione di massa: la stampa, la radio, la TV, il cinema e il web. Ne emerge il ritratto di una società che affronta e attua grandi trasformazioni, che coinvolgono anche la lingua. Così una lingua ingessata, adatta a scrivere atti amministrativi, trattati scientifici e opere letterarie, una lingua elitaria, a poco a poco nelle diverse regioni e nei diversi strati sociali diventa lingua viva, parlata come madrelingua, dinamica e articolata, rispondente a tutte le esigenze della vita sociale. L'italiano unitario è in parte frutto di una politica di unificazione "dall'alto", ma è anche una conquista delle classi inferiori, alle quali appare funzionale per un possibile riscatto sociale e culturale. L'italiano regionale e l'italiano popolare sono i passi intermedi compiuti dal popolo dei dialettofoni e degli analfabeti per impadronirsi gradualmente, "dal basso", della lingua nazionale.
L'Italia comunque è un paese multilingue: ancora oggi oltre il 30% della popolazione usa abitualmente un dialetto, in casa e a lavoro; circa il 5% sono immigrati, provenienti da 180 paesi. Inoltre esistono diverse minoranze linguistiche (albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda). In Friuli Venezia Giulia, ad esempio, è concentrata un'ampia varietà linguistica, testimonianza dell'avvicendarsi nella storia di popolazioni che si sono stanziate sul territorio: Romani, Germani, Slavi, Veneziani, Francesi, Austriaci. Oltre all'italiano, vengono perciò riconosciute ufficialmente come lingue regionali il friulano, lo sloveno e il tedesco; mentre il triestino, il bisiaco, il dialetto gradese, quello udinese e quello pordenonese sono ritenuti patrimonio tradizionale della comunità regionale. I dialetti peraltro sono stati e sono espressioni vivaci di ricche tradizioni letterarie.
L'italiano è, come tutte le altre lingue del mondo, un bene culturale immateriale. Dalle sue parole e dalle sue specificità grammaticali, si può leggere la storia delle persone che hanno abitato l'Italia, dei loro contatti con altri popoli e altre culture, della loro capacità di esportare la propria lingua e la propria cultura. L'italiano è una lingua influenzata dal latino anche, ad esempio, nella libertà di collocare le parole nella frase, nel mancato obbligo di esprimere il soggetto, in strutture morfologiche particolarmente complesse (come il sistema dei verbi e dei pronomi). La presenza di gallicismi, invece, per fare un esempio lessicale, è la prova del rapporto con lingua e cultura della Francia, a partire dal Medioevo fino al Novecento: da gioia e cavaliere a democrazia e libertà. Allo stesso modo ci sono più di 4400 italianismi in francese, inglese e tedesco, da bravo a piazza, da balcone a sonetto, da adagio a ciao. Sono per lo più termini architettonici, musicali, scientifici e letterari, ma ci sono anche voci legate al comportamento quotidiano. Inoltre l'italiano ha contribuito a formare un lessico intellettuale europeo di base greco-latina agendo da lingua ponte tra antichità e modernità.
Oggi anche l'italiano si ritrova in quella "tempesta delle lingue" causata dalla globalizzazione e deve affrontare nuove sfide: la concorrenza di altre lingue e quel multilinguismo che richiede sia tutela di sé sia apertura verso l'altro. L'Europa si sta impegnando in questa direzione essendo il multilinguismo un elemento fondante della sua identità. Ogni stato europeo tutela la propria lingua, ne diffonde la conoscenza e promuove attraverso la scuola e programmi di educazione permanente il plurilinguismo individuale, richiedendo ai suoi cittadini la conoscenza di almeno tre lingue europee.
Il Rapporto Maalouf del 2008 si intitola Una sfida salutare. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l'Europa e offre una visione non gerarchica delle lingue europee. Il documento è di grande attualità oggi che, per ragioni diverse, alcune lingue tendono ad acquistare un potere superiore rispetto ad altre, in contrasto con il principio di unità nella diversità che ispira la costruzione della casa comune europea. Il rischio è che alcune lingue perdano le funzioni superiori legate alla ricerca scientifica, all'espressione letteraria e all'insegnamento universitario.
Le lingue possono unire popoli diversi, soprattutto se vengono considerate parti di una competenza linguistica multipla, elementi essenziali di conoscenza del proprio interlocutore e ponti utili per quel dialogo interculturale che deve essere realizzato.
Solo riconoscendo le lingue non come semplici strumenti comunicativi, ma come beni culturali, come carte di identità delle persone e dei popoli, come modi diversi di conoscere e di analizzare la realtà, si eviteranno i rischi di una omologazione monoculturale, semplificante e non rispettosa della storia.
Le parole servono per pensare e imparare, e per mettersi in relazione. Una comunicazione non adeguata non raggiunge i propri obiettivi, ma modifica la relazione comunicativa fra le persone. Una comunicazione non attenta, non precisa, non adeguata può essere dannosa. Le parole infatti hanno un potere che cresce in relazione alla maggiore conoscenza linguistica di chi parla. Chi conosce più parole ha un potere maggiore e chi ha più potere ha anche più possibilità di modificare la realtà e la comunicazione, per questo bisogna usare le parole in modo consapevole.
Le parole pesano, non sono interscambiabili, cambiano nel tempo perché cambia la percezione di chi ascolta, la connotazione positiva o negativa, che si forma nel contesto sociale. È quello che succede con parole come disabile e diversamente abile, ma anche quando si parla ad un uomo o ad una donna. Il primo è spesso dottore; la seconda è spesso signora, indipendentemente dalla professione o dal grado di specializzazione. È per questo che negli ultimi anni si è cominciato a parlare di lingua di genere. La lingua è il costrutto di una società, è la conseguenza di un ambiente e di un modo di pensare, crea la realtà e la descrive, è uno strumento di riconoscimento dei cambiamenti.
L'uso di una lingua che considera il genere importante contribuisce a costruire una cultura che tenga conto delle differenze e rappresenti tutti/e coloro che partecipano alla vita sociale, economica e politica. Usare le parole per costruire o per distruggere è una scelta precisa e deliberata, di impegno civile e etico.
La comunicazione, secondo Mario Perniola in Contro la comunicazione del 2004, è l'opposto della conoscenza e esercita un'estrema violenza appiattendo e banalizzando tutto, è nemica delle idee perché dissolve tutti i contenuti. La più grande mistificazione della comunicazione è presentarsi come strumento democratico, mentre abolisce ogni messaggio attraverso l'esposizione di tutte le sue varianti. La comunicazione sembra mettere fuori gioco i valori non opponendosi ad essi, ma appropriandosene. Ciò che conta infatti è l'uso che del linguaggio si fa, è questo il suo significato.
Tra tutti i linguaggi quello verbale è il più conosciuto, ma ne esistono altri: i linguaggi di programmazione (usati dagli informatici), il linguaggio della musica, il linguaggio del corpo, il linguaggio dei vestiti. Inoltre non usiamo la lingua solo per scambiare informazioni, però, con la lingua si instaurano rapporti, si fa parte di un gruppo, ci si presenta ai propri interlocutori. Così usando il "tu", si crea un rapporto di parità, di amicizia e di simpatia; con il "lei" si imposta un rapporto più formale, di rispetto, di cortesia.
Le persone tendono quindi a sottolineare la propria appartenenza ad un ambiente (etnico, politico, religioso, professionale) utilizzando una lingua piuttosto che un'altra.