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Kaleîdos

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Numero 3 del 2022

Titolo: L'angelo della morte voleva i miei occhi

Autore: Cristina D'Antonio


Articolo:
(da «F» n. 4 del 2022)
Lidia ha 3 anni quando arriva a Birkenau. Mengele vede le sue iridi azzurre e la sceglie: sarà una delle cavie dei suoi esperimenti. Oggi, ottantenne, ha incontrato papa Francesco. E scritto un libro per insegnare come, alla fine, si può decidere di non odiare
Mi guarda a lungo negli occhi: sono azzurri, come quelli degli ariani. È compiaciuto. Tocca e valuta braccia e gambe. Ho tutto a posto, sono in salute. Ho tre anni, quasi quattro. Mi indica: «Questa la prendo io». Sono la bambina perfetta per Josef Mengele, il medico che ha ucciso non meno di 3 mila persone, moltissime donne incinte e 850 gemelli.
Mi chiedono: «Sei sicura di ricordare bene? Eri così piccola». Sì, lo sono. Come sono certa di quello che mi è successo in questi miei 80 anni.
Io mi chiamo Ljudmila Boczarowa, Luda per i miei genitori, vengo dalla Bielorussia. Sono sopravvissuta al campo di sterminio di Birkenau, a 13 mesi di prigionia, agli esperimenti medici. Ho attraversato la vita come ho potuto: ero poco più di niente quando mi hanno strappato il futuro; eppure, ho imparato a non odiare. Sono Ljudmila, che un giorno diventò Lidia Maksymowicz, che è come mi chiamo adesso. Sono la donna che non ha saputo cosa dire a papa Francesco quel giorno di maggio, a Roma, perché non conosco la sua lingua. Però ho pensato: qualcuno ha voluto che io fossi solo un numero, il 70072, che mi cancellava come persona. Quelle cinque cifre mi racchiudono. Le ho mostrate al Papa perché parlassero per me. Lui le ha baciate, in silenzio. Settantasette anni dopo che me le avevano impresse nel corpo, davanti a mia madre.
Anna, la mia mamma, ha 22 anni quando scendiamo dal treno, davanti al campo di concentramento. È il dicembre del 1943. Puzzo, puzziamo tutti. Eppure quell'odore è l'unica cosa amica in un mondo nemico.
Ancora oggi, se sento un cane abbaiare, mi ritrovo in mezzo a quella neve, tra ombre in uniforme che ringhiano ordini. I miei nonni li hanno portati via subito. Mio padre Aleksander non c'è: l'aveva già preso l'esercito russo. Perché noi eravamo partigiani. Avevamo scelto la fuga nei boschi e le notti nelle «zemlijanka», le buche dove allora si custodivano le patate in inverno. Finché ci hanno catturato. Agli occhi dei nazisti siamo colpevoli. Di cosa? Di non essere tedeschi.
Del fumo nero esce da due ciminiere. L'aria sa di carne bruciata. Mi separano da mia madre. Mi aspetta la baracca delle cavie del dottor Mengele.
«Mamma, lasciami le tue mani»
Capisco in fretta che strisciare e tacere sono l'unica possibilità di resistenza. Nascondermi negli angoli quando vengono a prenderci. Non fiatare, nemmeno quando mi passa sopra un topo. È un silenzio in cui tento di scomparire per non morire. Scappo da tutto, scappo da me stessa. Però Mengele mi trova. Mi inietta veleni, mi fa trasfusioni, mi lascia piena di pustole. Lavora sui miei occhi azzurri: gli occhi sono la sua ossessione.
Non so cosa ci versi dentro perché mi addormenta, ma bruciano per giorni e mi viene la febbre alta.
«Luda?»: è mia madre che mi cerca. Mi porta delle cipolle. La imploro: «Per favore, lasciami anche le tue mani. Ne ho bisogno quando è buio». «Non prova odio verso chi le ha rubato l'infanzia?», mi ha chiesto un giornalista. No. Luda è una bambina che non può odiare. Non può provare nulla. Hans Jonas, filosofo di origine ebraica, scriverà: «Dio non intervenne non perché non lo volle, ma perché non fu in grado di farlo. Chi lo fermò? Io credo la cattiveria degli uomini. Contro questa anche Dio non poté fare altro che un passo indietro».
La signora delle oche
Un giorno sono andati via tutti. La kapò della baracca. Mengele. Mia madre, spedita a Bergen-Belsen. Alla fine di gennaio, nel 1945, noi bambini dondoliamo avanti e indietro sui tavoli delle baracche. Potrebbe entrare chiunque e non faremmo nulla per difenderci.
Arrivano i russi. E dopo di loro le donne di Oswiecim, la città vicina, per accogliere gli orfani del campo. «Vieni? Ti prenderai cura delle mie oche?». Seguo la signora con la pelliccia di foca. Mi parla in polacco. Birkenau è improvvisamente il passato. La Bielorussia anche. Di mia madre, più nessuna notizia. Diventerò la figlia adottiva dei Rydzikowscy.
La prima notte da bambina libera non riesco a spegnere gli occhi. La prima colazione quasi mi uccide: l'intestino si oppone al cibo. Le prime scarpe le rifiuto: voglio le mie, anche se sono due sinistre. Adattarmi è difficile.
Per esempio, non so salire le scale: ne ho paura. La signora - non riesco a chiamarla altrimenti - chiede al prete di battezzarmi, perché sa che la mia famiglia era cattolica. Ne esco con un nome nuovo: Lidia. Per la gente di Oswiecim, che sta tra Birkenau e Auschwitz, sono «Lidia del campo».
Ritrovarsi con due madri
Ci sono tornata, in quei primi mesi, al campo. I bambini normali ci vanno a giocare, mi chiamano. Vedo la mia baracca. Dopo un po', non ho più paura. Corro come gli altri, dentro e fuori. Spiego ai miei compagni che posto è, cosa succedeva, che cosa mi hanno fatto. È il mio primo atto come testimone. A chi me lo domanda, rispondo che credo sia giusto portare i propri figli, anche se sono ancora piccoli, in questi luoghi: non penso che la verità faccia male. Al contrario, aiuta a capire quello che non dovrà mai più accadere.
A me sono capitate molte cose. Ancora oggi, quando siedo a tavola, stento a non nascondere del cibo nel tovagliolo per portarlo via.
A me è successo che mi hanno tolto una madre, che ne ho trovata una adottiva, che ormai maggiorenne ho ritrovato la prima, che alla fine le due hanno scelto di amarmi senza rubarsi lo spazio l'una con l'altra. È una storia lunga e complicata - di lunghe lettere per spiegare una lacerazione che non potrà mai ricucirsi davvero - che è entrata in una Storia più grande.
Un giorno la mamma delle cipolle, Anna, ha voluto tornare a Birkenau, con me, perché vedessi, assieme a lei, come la cenere dei morti sia diventata parte della terra. Poi, ha chiuso quel cancello. E non ha voluto più attraversarlo.
So che è difficile da capire, ma io non so odiare. Chi odia soffre molto più di chi è odiato. Perché spesso chi è odiato non sa di esserlo. L'odio distrugge, e basta. Il mio compito è restituire il bene possibile: raccontando, anche, il male.
Cristina D'Antonio



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