Numero 2 del 2022
Titolo: Donne coraggiose
Autore: Redazionale
Articolo:
Rischio la vita tra i malati
Storia di Giuseppina
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
Una pioggia violenta si abbatte su Calcutta, il monsone scuote la città indiana fin nelle viscere, sono fradicia. Scortata dai volontari delle suore di Madre Teresa, cerco una stanza dove alloggiare. Camera dopo camera, hotel dopo hotel, l'impatto è devastante. Cellette buie, materassi lerci e bacherozzi. Voglio morire. Perché non sono capace di volarmene via?
M'infilo in un albergo meno sordido, i volontari se ne vanno. La paura cresce.
Devo registrarmi alla casa madre delle missionarie della Carità, ma mi perdo nel quartiere musulmano, un labirinto di vicoli fetidi, caotici e congestionati.
Dove sono finita? L'assenza di qualsiasi punto di riferimento trasforma la fifa in panico.
Vago grondante d'acqua tra macellerie che traboccano di carne maleodorante, montagne di spazzatura a bordo strada, cani selvatici e macilenti, uomini storpi che chiedono l'elemosina. In mano un foglietto con scritto «Mother House», in bocca tre parole di inglese: non capisco gli indiani, loro non capiscono me. Sola, persa in quella città dolente e piovosa, sono in trance come se la bomba atomica fosse esplosa nel mio cuore e nel mio cervello.
Poi due braccia amiche m'infilano dentro un risciò, mormorando una nenia ritmica. Ripenso a cosa mi ha portato lì: una chiamata. Accorcio la strada tra me e la missione e non sono più sicura di niente.
La mia infamia difficile
Sono nata a Pontremoli, in provincia di Massa-Carrara, in una famiglia povera di origine calabrese. Eravamo in dieci tra fratelli e sorelle, parlavamo solo dialetto. Mio padre si ammazzava di lavoro nei cantieri delle autostrade, il piccone in mano anche a 40 gradi, sotto il sole rovente dell'estate. Era un uomo del 20, poco incline a mostrare i sentimenti. I soldi non bastavano mai e lui beveva per frustrazione.
Così sono cresciuta in un collegio: per anni ho aspettato alla finestra il ritorno di mamma e papà, sognavo che mi riportassero a casa con loro, che avrei vissuto di nuovo in famiglia con i miei fratelli. Non è mai successo, ma diventare grande in quell'istituto di religiose si è rivelata la mia fortuna. Le suore mi hanno dato un'istruzione senza aspettarsi che diventassi una di loro.
Ho frequentato le superiori, visto i film di Ingmar Bergman, parteggiato per le compagne più grandi che occupavano la scuola. Quel gruppetto di donne consacrate a Dio ha lasciato un'impronta indelebile su di me: mi ha fatto capire cosa significhi prendersi cura di qualcuno, riconoscendolo come essere umano e non come un contenitore da riempire. E mi è rimasta la certezza che l'amore è la forza più grande che abbiamo.
Affondo le mani nel dolore
Altri incontri fortunati mi hanno aiutato a costruire la mia strada quando, maggiorenne, sono uscita dal collegio. Il mio primo lavoro è stato in un negozio e mi ha portato bene.
«Ti piacerebbe fare l'infermiera?» mi propone un giorno una cliente.
Al mio sì, questa signora s'impegna perché io possa fare il corso nel convitto, spesata di tutto. Un altro angelo è un professore di Igiene della scuola per infermieri che mi prende sotto la sua ala e mi fa entrare all'istituto dei tumori di Genova, dove affondo le mani nel dolore per più di vent'anni.
Non posso dire che tutti i malati mi abbiano preso il cuore, ma tanti mi hanno lasciato una grande ricchezza. Quando guardi negli occhi una persona che sta morendo, le parole non sono più necessarie: è un momento di verità assoluta. Come la mattina in cui il figlio di un paziente mi prende per mano e mi porta nella camera del padre con un tumore al cavo orale.
Mi avvicino al letto in penombra. Per un secondo, la mia vita si ferma: quell'uomo non ha più il volto. Gli prendo la mano: «Sono Giuseppina. Se mi riconosci, stringi il mio pollice».
Celebro ancora nei miei giorni della memoria quell'ultimo breve incontro delle nostre dita.
Il mio lavoro potrebbe bastare per dare un senso alla mia esistenza, ma io non mi fermo.
M'iscrivo a una scuola di crescita personale in Centro Italia: un weekend al mese e una settimana d'estate. Per quattro anni ribalto i turni in ospedale e consacro le ferie ai corsi, ma lavoro intensamente su me stessa. A fine percorso, lo ricordo come fosse oggi, mi ritrovo a fare una potente meditazione collettiva. È settembre, un sole tiepido scalda la palestra tutta vetri nella campagna umbra, dove sono sdraiata con il mio gruppo. Ho la sensazione di staccarmi dal corpo.
Avverto la mia voce interiore che mi dice: «Lasciami libera». Subito dopo, sento queste parole pronunciate con un altro timbro: «Vai a Calcutta». Io, semplicemente, dico sì a tutte e due.
L'India mi ribalta
Le suore di Madre Teresa mi assegnano alla Casa del morente, un nome che non ha bisogno di spiegazioni. Non sanno che sono un'infermiera professionale, così lavo piatti, panni e pulisco malati allettati. Parlo solo con altre due giovani volontarie italiane cui devo fare da mamma, di fronte a tanta sofferenza sono in crisi. Inizia una fase terribile, non per quello che vedo, ma perché mi accorgo di aver vissuto nella menzogna: mi sono riempita la bocca con la parola «amore» senza aver mai capito cosa significhi davvero. Mi sento inadeguata e arida, incapace di vivere senza giudicare gli altri. Ogni mattina giuro che vado a cambiare il biglietto aereo e me ne torno in Italia: ogni sera qualcosa mi trattiene.
Il seme d'amore che è stato piantato dentro di me comincia a germogliare. Conosco Jimmy, un volontario olandese che vive a Calcutta da vent'anni.
«Che bel sorriso hai» credo mi dica in inglese.
«E quando mai l'ha visto? Non ho ancora riso una volta da quando sono in questo inferno!».
Jimmy mi chiede se voglio occuparmi con lui degli ultimi degli ultimi: quelli che vengono pescati in fin di vita intorno ai binari del treno. Non ci sono episodi memorabili per raccontarvi la trasformazione che avviene dentro di me.
Semplicemente, inizio ad ascoltare con il cuore.
E allora capisco, sento, scopro il senso della fratellanza, il tessuto per realizzare un mondo migliore. Perché l'amore è frutto di esercizio costante, non arriva per grazia ricevuta. Tutti abbiamo il cuore, ma è un muscolo e va allenato, proprio come gli addominali se vuoi la tartaruga.
Certo la paura del futuro e quella dell'altro non mi abbandonano, ma preferisco averle come compagne di viaggio e non come limiti che mi costringono a una morte quotidiana.
Ora so come essere felice
Torno a Genova e capisco che incontrare il mondo e tendere la mano a qualcuno mi fa sentire libera. Lo preferisco alla vita confortevole che mi sono conquistata.
E in un impeto di gioia sento che devo affidarmi all'universo. Mi licenzio. Regalo i miei bei vestiti. Vado sei volte a Calcutta, tutte per lunghi periodi, dai sei ai dodici mesi, e una in Argentina. Un'avventura. Mi affidano a una casa per malati di Aids nella periferia di Mar del Plata.
La jeep traballante guidata da una suora neopatentata attraversa tutte le pampas: nove ore di viaggio, scenari unici. Sono l'unica volontaria in un posto tutt'altro che accogliente, una struttura nuova che fa da sfondo a una desolazione antica.
«Vai, è roba tua» mi dicono tre suore, mostrandomi sei donne rifiutate dalle famiglie perché malate di Hiv. Sono a letto, sporche, incapaci di nutrirsi. All'inizio ho paura, metto i guanti per toccarle. Poi mi dico: «Questa è la mia vita. Sono felice e l'ho scelta. Se devo morire perché mi ammalo vuol dire che la mia corsa deve finire qui».
Così mi rimbocco le maniche. Ogni giorno le alzo, le lavo, le nutro. Iniziano la terapia retrovirale. Molte non la reggono e vomitano. Le cambio e le lavo una seconda volta. Per pranzare e cenare le faccio sedere a tavola legate perché non cadano. Appena si riprendono, è tempo di fisioterapia. In tre mesi quelle sei donne si rimettono a camminare, a lavarsi da sole e a mangiare. E sono in grado di farsi il bucato. La dottoressa quando le vede è sbalordita.
«Giuseppina, fermati a lavorare con noi» mi propone.
Io però non desidero che questo diventi il mio lavoro. Voglio sceglierlo ogni giorno.
Torno a casa, faccio la badante per guadagnare qualcosa e mi preparo a ripartire.
Sono stata in Etiopia e poi in Tanzania perché volevo sentire l'energia dell'Africa.
So che il mio impegno non cambia il destino dell'umanità, le persone muoiono ogni giorno. Ma quello che faccio, per loro e con loro, consente alla mia anima di esprimere ciò che sono.
Giuseppina Piccolo, 59 anni, infermiera, vive a Genova e lavora in un istituto per anziani.