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Kaleîdos

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Numero 2 del 2022

Titolo: Daniela Mapelli. Non voglio essere l'ultima

Autore: Daniela Giammusso


Articolo:
(da «F» n. 53 del 2022)
In 800 anni, l'università di Padova non aveva mai avuto una «magnifica». Daniela si è candidata, è stata eletta. Ma più che gioire per se stessa e per le altre 7 come lei, guarda i 76 atenei ancora guidati da un uomo
Che avesse la tempra per guidare la «nave» anche nella tempesta lo aveva dimostrato già due anni fa, quando, ancora «solo» nel ruolo di prorettrice alla didattica, si era ritrovata a tu per tu con il tunnel nero della pandemia. E l'urgenza di portare il secondo più antico ateneo d'Europa tutto Online. «Oggi sembra banale, ma al tempo le assicuro che non lo era», sospira. Quest'estate, invece, prima ancora di insediarsi, è corsa in aiuto dei ragazzi e delle ragazze afghane, deliberando 50 nuove borse di studio pur di strapparle alla furia dei talebani. E ora c'è la sfida dell'Europa e del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che agli atenei italiani chiede un cambio di passo radicale verso il futuro.
Daniela Mapelli, 56 anni, docente di Neuropsicologia e Riabilitazione neuropsicologica, è dal 1o ottobre la prima rettrice donna dell'università degli studi di Padova, pioniera in un mondo che in Italia è ancora saldamente nelle mani dei maschi. Anche nel suo ateneo, che pure è celebre per aver avuto Galileo Galilei tra gli insegnanti e oggi vanta, secondo il Censis, il più alto tasso di occupati del Paese a cinque anni dalla laurea. Soprattutto, qui si è laureata la prima donna al mondo, la veneziana Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, in filosofia, nel 1678. Eppure, per rompere il soffitto di cristallo di una donna «Magnifica rettrice», come si recita nelle formule ufficiali, sono dovuti passare 800 anni di storia.
D. Rettrice Mapelli, perché così tanti?
R. La cosa peggiore è che prima di me a Padova non c'erano neanche mai state candidate per il ruolo. A queste elezioni invece eravamo tre su quattro: un messaggio importante, perché le donne devono cominciare quantomeno a farsi avanti. Senza favoritismi, si gareggia ad armi pari con gli uomini e poi la comunità sceglie. Ma anche nel resto d'Italia la situazione non è diversa: su 84 atenei pubblici solo 8 sono guidati da donne.
D. Si sente una pioniera?
R. No, però sento la responsabilità. È importante essere la prima e soprattutto non essere l'ultima.
D. Da ragazza cosa sognava?
R. Ho capito presto che la mia passione erano la ricerca e poi la vita accademica. Fondamentali sono stati i miei genitori che sia a me sia a mia sorella hanno insegnato l'importanza di essere indipendenti, nel pensiero e dal punto di vista economico.
D. Appena eletta ha chiesto di essere chiamata «rettrice», declinando la carica al femminile. Perché?
R. Il legame tra linguaggio e pensiero è strettissimo: uno influenza l'altro e viceversa. Non è questione di etichetta, ma di iniziare a raccontare la parità di genere e dare l'esempio. A Padova abbiamo più di 13 mila laureati l'anno, 6l mila studenti iscritti ai corsi, più i dottorati e i master: da oggi per tutti sarà «normale» avere una donna alla guida dell'università o leggere «rettrice» sui diplomi che appenderanno in bella vista per tutta la vita. La normalità si conquista anche con i dettagli.
D. E delle quote rosa, cosa pensa?
R. Non credo siano più necessarie, anche perché poi dipende dalle donne che ci sono. È dalla base, invece, che bisogna ripartire. Nelle università mediamente le studentesse sono più degli studenti, si laureano prima e sono anche più brave. Al dottorato il rapporto è ancora 50-50, ma più si progredisce nella carriera più le donne diminuiscono. Così quando si arriva a scegliere tra i candidati per un ruolo apicale sono pochissime o non ci sono affatto. Su 32 dipartimenti, per esempio, nel mio ateneo 26 direttori sono uomini e solo 6 donne.
D. Perché accade?
R. È un problema culturale, ma anche di mezzi. Per permettere alle donne di correre con gli uomini, bisogna dar loro aiuti concreti.
D. Lei cosa fa per aiutare le altre?
R. Inutile negarlo, il primo tema sono i figli. Abbiamo sempre meno nonni o zii cui affidarli. E chi, legittimamente, ne vuole, come fa a crescerli e continuare a lavorare? Per questo lo scorso anno abbiamo aperto un asilo nido aziendale all'interno dell'università. È un grande aiuto. Ma io spingo molto anche sui congedi di paternità, perché credo nella parità genitoriale. Parallelamente qualche anno fa abbiamo inserito una sorta di premio ai dipartimenti in cui c'è una maggiore assunzione di donne. E poi bisogna combattere la disparità salariale.
D. Molte donne lamentano una sottile, anche inconsapevole, discriminazione nelle selezioni per un lavoro. Le è mai capitato?
R. A me no, ma è vero che a volte esistono preconcetti. Non a caso in alcuni Paesi come gli Stati Uniti spesso nei curriculum tolgono il genere del candidato. Si fa una selezione blind, cieca, proprio per evitare pregiudizi. Noi all'università per prevenire discriminazioni o, peggio ancora, comportamenti illeciti e molestie, abbiamo istituito un Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, un Codice di condotta, una Consigliera di fiducia e anche un canale per segnalare le denunce in forme anonime.
D. Lei è mamma di un ragazzo di 26 anni e di una ragazza di 15. Come si insegna ai figli la parità di genere?
R. Non abbiamo mai trattato in maniera differente l'uno o l'altra. I ragazzi assorbono quello che vedono. Ricorderò sempre quando mia figlia tornando dall'asilo mi disse incredula: «Ma lo sai che la mamma della mia compagna non lavora?». Per lei il mondo era fatto da persone che lavoravano, come me e il papà, a prescindere se fossero uomini o donne.
D. Alle ragazze di oggi su quali materie consiglia di puntare?
R. Abbiamo appena aperto alcuni corsi estremamente innovativi, dedicati, per esempio, all'economia circolare e al Food and Health. Ma in Italia dobbiamo attrarre le ragazze soprattutto verso le lauree tecnico-scientifiche, le cosiddette Stem. La presenza in media è del 30 per cento, ma in facoltà come Ingegneria è veramente ridotta. Non per capacità: mi occupo di neuroscienze e posso garantire che non esistono differenze tra il cervello dell'uomo e quello della donna. Sono i modelli culturali a condizionarci. Evidentemente viviamo in una società in cui alcuni mestieri sono ancora visti come maschili.
D. Quando potremo dire di aver rotto il soffitto di cristallo?
R. Quando non ci ritroveremo più a parlarne. Intanto, lo abbiamo scalfito.
Daniela Giammusso



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