Numero 2 del 2022
Titolo: Rinate dopo gli abusi
Autore: Silvia Gavino
Articolo:
(da «F» n. 2 del 2022)
Luisa crolla quando scopre che un amico di famiglia ha molestato le sue figlie: sa cosa provano, ci è passata. La aiutano il processo contro l'orco e la terapia. «Perché dall'inferno si può uscire»
«Luisa, è successa una cosa gravissima ieri sera», mi dice al telefono una mia amica con voce alterata. «Mia figlia sta arrivando da te a parlartene». Penso subito alla mia secondogenita Lorenza che ieri sera era con sua figlia a festeggiare i 18 anni di un'amica. Cosa sarà successo? La ragazza si affaccia al bar dove lavoro, la vedo sconvolta. Vuota il sacco. «Lorenza ha bevuto un paio di drink ieri. E si è messa a urlare: Paolo abusava di me». Quelle parole mi mandano in frantumi come un vaso di cristallo. Chiamo la psicoterapeuta che segue Lorenza da qualche tempo. Sono scioccata, confusa. La dottoressa conferma che le parole di mia figlia non sono un'infelice richiesta di attenzione. «Che Lorenza avesse subito un grosso trauma in infanzia era già chiaro. Ora che è risalito a galla bisogna proteggerla. E proteggere anche lei, signora Luisa». Non fa in tempo a dirmelo che il mio corpo si ribella. Mi viene un trombo per cui devono operarmi d'urgenza, segue un attacco di emorroidi che richiede un intervento e infine mi diagnosticano una patologia autoimmune. È il 2015 e io sto andando in pezzi.
Mi fidavo di lui
Paolo era l'amico fragile del mio primo marito, il padre delle mie due figlie che in una mattina del 2005 è uscito in bicicletta e non è più tornato per un infarto. L'ho sempre visto come un uomo mite, Paolo, incapace di costruirsi una famiglia e un futuro, e proprio per questo abbiamo cercato di proteggerlo. Lo abbiamo aiutato a trovarsi un lavoro, spesso veniva in vacanza con noi, uno di famiglia a tutti gli effetti. Poi lui sparisce dall'oggi al domani andando a rifugiarsi in un'altra regione. Come ho fatto a non capire? Come ho potuto non collegare il repentino cambiamento di carattere di Lorenza? Pensavo che fosse legato alla perdita di suo padre, e lo credeva anche la psicologa da cui ho portato la bambina perché si era rabbuiata da un giorno all'altro. Mentre i pensieri si rincorrono tra dubbi e sensi di colpa, avanza una domanda atroce: e se fosse successo anche a sua sorella? Intanto il mio secondo marito si rivela un violento. Ma tutto quello che mi dice o mi fa, sento di meritarlo.
Le altre verità
I miei dubbi trovano riscontri. Anche Margherita, quando era piccina, è stata toccata da quell'uomo. Ormai grande, è diventata mamma da poco ma ha problemi con il compagno, il padre di suo figlio, e si è rivolta anche lei a un terapeuta per capire cosa stesse succedendo. Mi odio ancora di più, annego nei sensi di colpa. Ho dato entrambe le mie figlie in pasto a un mostro. E ho fatto vivere a loro un dolore e una vergogna senza fine. Lo so perché da bambina ci sono passata anch'io.
Vorrei buttarmi giù dal balcone, ma Paolo è pericoloso, va fermato. E poi non potrei mai lasciare le mie ragazze a combattere da sole, devo lottare con loro. Conosco quella sofferenza: avevo otto anni quando mia madre ha visto mio fratello abusare di me. Lo ha detto a mio padre che lo ha riempito di botte davanti al resto della famiglia.
Ricordo ancora la vergogna, come se fosse stata colpa mia, e poi l'ostracismo di genitori e fratelli. Per anni sono stata trattata come quella che aveva fatto il guaio. Guaio di cui non bisognava parlare con nessuno, anzi meglio dimenticarlo. E così ho fatto. Ma non a costo zero.
Ora che le notti le passo in bianco, ho tutto il tempo di ripercorrere la mia, di storia. Mi sono sposata giovane, mio marito e io abbiamo costruito una bella famiglia e una solida azienda: avrei avuto di che essere contenta, invece non era così. Sentivo di non meritare la felicità. Spesso poi vivevo in una specie di bolla, come se ciò che accadeva intorno a me non mi riguardasse davvero.
Come vuole che stia?
Sarebbe stato impossibile per me dare un nome a questi episodi dissociativi se non mi fossi sottoposta a un mare di terapia. «Mille ore», dice la mia terapeuta, che me ne ha regalate molte pur di guidarci fuori dal guado.
Il più grosso investimento della mia vita, non tanto per il costo, quanto per il dolore terribile che ho dovuto attraversare ogni volta per potermene liberare una volta per tutte.
«Come sta, signora?», mi diceva la terapeuta. «E come cazzo vuole che stia?», urlavo i primi tempi. L'Emdr, una tecnica molto usata per riparare i ricordi traumatici, mi ha costretta a rivivere scena dopo scena le molestie subite, le reazioni dei familiari, il loro silenzio ostile. È stato l'inferno, ma non c'era un'altra via.
Abbiamo fatto tutto quello che ci veniva proposto: yoga, mindfulness, sessioni individuali, familiari, di gruppo. Ho abbracciato anche la via spirituale che mi ha insegnato a perdonare. Intanto la vita andava avanti. Il lavoro, il mio volontariato tra i malati a Lourdes e le vendite di alberi di Natale per finanziare la «terapia sospesa».
Anche le indagini andavano avanti, perché avevamo denunciato Paolo.
Per fortuna ci credono
Il processo è stato duro e ha costretto tutte e tre a rivivere il passato tra le domande scomode degli inquirenti. Per fortuna, tra registrazioni e testimonianze siamo state credute. Non voglio immaginare come staremmo se non fosse stato così. Tra i tanti percorsi fatti per superare il trauma ricordo anche un corso di auto-aiuto: una ragazza si è tolta la vita perché la madre ha minimizzato l'accaduto. Quando ti hanno fatto del male e il tuo mondo si gira dall'altra parte è davvero terribile. Un giorno, in udienza, è emerso un fatto che ignoravo, e che ha ferito ulteriormente Lorenza. La mia secondogenita ha cercato di buttarsi sotto un treno, l'ha salvata una signora afferrandola per lo zaino. L'abbiamo fatta ricoverare, ha fatto venti giorni in ospedale con terapia individuale quotidiana, e si è ripresa.
Sono passati sei anni e la nostra vita è cambiata totalmente. La terapia ha salvato la mia vita e quella delle mie figlie, due ragazze fantastiche. Oggi vedo la realtà per come è. Sono consapevole del dolore, ma non sono più anestetizzata e non vivo «nella bolla».
Abbiamo vinto il processo, anche grazie all'avvocato giusto che ci ha seguito con cura e delicatezza.
Paolo è stato condannato a 10 anni: il Pubblico Ministero ha pianto quando è stata letta la sentenza. Così alla fine ho attraversato l'inferno ma ne sono uscita. La forza me l'ha data l'amore per le mie figlie, per la giustizia e per la verità.
Silvia Gavino