Numero 22 del 2021
Titolo: Donne coraggiose
Autore: Redazionale
Articolo:
Il mio ex mi ha ridotto in fin di vita
Storia di Lidia
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
Un colpo alla testa mi stordisce, penso a un terremoto. Un altro, e un altro ancora, più forte, più veloce. Sdraiata sul letto, a pancia in giù. Non posso muovermi. La sua prima arma è una bistecchiera in ghisa presa dalla cucina: «Amore, vado un attimo in bagno» mi ha detto pochi minuti fa mentre dormivamo abbracciati. Sono le due di notte del 25 giugno 2012, la più terribile, infinita, ingiusta della mia vita.
Il manico della padella si rompe, riesco ad alzarmi. Lui mi guarda fisso negli occhi, prima di conficcarmi un paio di forbici nella schiena. Con un briciolo di forza provo a difendermi, ma mi taglia lo zigomo. Annaspo, quasi svengo. Sto sognando, mi convinco. E dire che poco prima, al Santuario di Tindari, in ginocchio davanti alla Madonna nera, ha giurato sui suoi figli. «Non alzerò mai più le mani» ha detto. E aggiunto che si sarebbe preso cura di me. Non sono passate nemmeno dodici ore da quella promessa.
Isidoro prende il filo dell'abat-jour, vuole strangolarmi. Mi trascina al centro della stanza per i capelli, mi fa sbattere la testa in ogni angolo appuntito della testiera in ferro battuto. Cerco di nascondermi sotto il letto, ma un altro fendente mi apre il coccige. Urlo, scalcio, ma siamo in aperta campagna: solo i miei cani possono sentirmi.
Non muoio, non ancora. Scorgo la rabbia sul suo volto. Mi mette di schiena a terra, lui sopra a cavalcioni, mi riempie di pugni in faccia. Con le unghie mi apre la gola. Riprende le forbici e me le infilza nell'addome e nella gamba. Non sento più dolore, vorrà dire che sto morendo. Reagisco, solo Dio mi dà la forza. Strizzo i suoi testicoli, si allontana. Se ne va. Titoli di coda di un film dell'orrore lungo cinque ore. La scenografia è una pozza di sangue: lo testimoniamo le foto agghiaccianti di come mi ha ridotto. Foto che deciderò di mostrare alla stampa e pubblicare sui social. Il cervello gira all'impazzata.
Diventa ossessivo e violento
Isidoro e io stiamo insieme da una decina di mesi. Mio marito mi ha lasciata, mi aggrappo a lui: è allegro, simpatico, affettuoso, brillante, socievole, mi riempie di attenzioni. Mi piace. Sono una hostess, e per lavoro da Palermo mi trasferisco a Catania. Viene con me. Mi sento protetta, sicura, ho un nuovo futuro davanti, dopo la brutta esperienza della separazione. Finché il suo modo di starmi vicino comincia a rivelarsi ossessivo. Mi accompagna ovunque, anche dall'estetista e dal parrucchiere. Si alza alle quattro del mattino per venire all'aeroporto con me: dice che è un piacere, ma capisco che è un modo per controllarmi. «Lidia, dammi il telefono» mi dice un giorno.
«No» gli rispondo. È il gennaio del 2012 quando mi picchia per la prima volta. Uno schiaffo mi fa sbattere la testa contro il muro. Vado in ospedale, ma tre giorni di prognosi sono troppo pochi. In Italia ne servono almeno venti affinché l'autorità intervenga. Chiede perdono, ma poi mi accusa di essere una prostituta. Prende i miei soldi, dice che li guadagno in strada. Sono confusa, spaventata, sola. Che errore non essermi ribellata al primo schiaffo.
Cinque mesi ed è fuori dal carcere
Dopo quella terribile notte in cui mi ha ridotto in fin di vita lo denuncio e viene arrestato. Cinque mesi dopo, una mattina, mi sveglio e trovo un suo messaggio su Facebook. «Ciao, come stai?» Non credo ai miei occhi. Rivivo l'inferno di quella notte. Scopro che quest'uomo che ha cercato di uccidermi è già agli arresti domiciliari, libero di usare computer e telefono, in attesa del processo per tentato omicidio e sequestro di persona. Intanto mi perseguita, mi accusa, mi opprime. Ho un nuovo compagno, Salvo, e questo lo rende ancora più folle.
«Non ti ho fatto niente. C'era bisogno di denunciarmi?» scrive.
Arriva la condanna, nel 2013: quattro anni e sei mesi, ma in carcere non ci starà mai a lungo. Patteggia, ha soltanto l'obbligo di firma ogni giorno alle diciotto.
Per due anni vivo nel terrore, mi segue, mi tempesta di messaggi, mi scrive nei dettagli come sono vestita, per farmi vedere che sa dove sono, in ogni momento. Un'ombra sempre alle mie spalle. La paura mi blocca il fiato e le gambe, quando lui passa e mi dà una pacca sulla spalla. Minaccia i miei amici, che non mi salutano più spaventati, picchia il mio compagno. Solo nel 2015, dopo decine di segnalazioni, che sono la mia richiesta disperata di aiuto, rientra in carcere per finire di scontare la pena.
Inizia un nuovo processo, questa volta per stalking. Presto mi rendo conto che portando alla luce del sole la mia storia, mostrando al mondo le immagini di come mi ha ridotto quella notte, ho firmato la mia condanna a morte. Ho mostrato il mio corpo, un corpo massacrato, dilaniato da chi mi chiamava «Amore». Lui mi ucciderà prima o poi, ne sono certa. Me lo ha detto, ridendo, convinto che tanto al massimo starà in carcere ancora per qualche anno. Ma vado avanti.
Il mantra del giudice
Sono di Palermo, mia madre lavorava in tribunale e conosceva Paolo Borsellino.
«Chi è coraggioso muore una sola volta, chi ha paura muore ogni giorno».
Mi ripeto come un mantra le parole del giudice ucciso dalla mafia. Mi ha insegnato il valore della giustizia. Ho scelto di combattere: se le leggi cambiano è perché noi donne denunciamo. Dobbiamo essere mille e poi 5 mila e poi 10 mila, i numeri sono la nostra forza. Fare un esposto vuol dire subire interrogatori terribili, indegni. Se ti scippano la borsa nessuno viene a chiederti come tenevi quella borsa, se vieni massacrata o stuprata ti chiedono com'eri vestita, se avevi la minigonna e se hai provocato. Eppure solo denunciando possiamo cambiare il mondo.
Ho lanciato una petizione su Change.org che ha raccolto 100 mila firme. Chiedo a chi andrà al governo di cambiare la legge, in modo che si possa procedere d'ufficio per il delitto di violenza sessuale e che ogni donna abbia tutto il tempo necessario per presentare denuncia oltre il limite dei sei mesi concessi oggi. Chiedo che a questi mostri vengano tolti i permessi premio, il patteggiamento, il rito abbreviato. M'impegno per aiutare altre donne a denunciare i carnefici. Il mio telefono squilla senza sosta. Nel frattempo la mia vita continua e con Salvo diventiamo genitori di due gemelli.
Sogno di lasciare la Sicilia
Mi chiedo che cosa ho fatto per meritare questo, per essere condannata a morte nella mia terra. Cerco aiuto per andare via da Bagheria, perché il mio ex è uscito dal carcere nel luglio 2018. Il processo per stalking è ancora in corso. Nel frattempo lui è stato condannato in primo grado per aver aggredito il papà dei miei gemelli. Presto sarò di nuovo senza lavoro, ma nessuno ascolta il mio grido.
Quando esco da casa e vedo l'auto dell'uomo che mi ha ridotto in fin di vita, grido. Poi corro. Non vivo.
I miei figli hanno diritto ad avere un futuro, ad andare all'asilo, a giocare nei parchi, ad avere una mamma serena. E invece li tengo in casa, ho paura. Non voglio che conoscano la violenza, come l'ho conosciuta io, che si guardino sempre alle spalle. Sogno di andare in Toscana con Salvo e con i nostri gemelli. Di fare l'insegnante e di sfruttare la mia laurea in Storia dell'arte. Ogni notte ho l'incubo di morire per le botte. Ma voglio fare la differenza, lottare per il bene. Voglio essere libera.
Lidia Vivali, 48 anni, vive a Bagheria (Pa) con il compagno Salvo e i loro due gemelli, Francesco Paolo e Morgana, 4 anni.