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Kaleîdos

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Numero 22 del 2021

Titolo: Abbiamo affrontato il Covid, ora tocca al sessismo

Autore: Enrica Brocardo


Articolo:
(da «Grazia» n. 50 del 2021)
Lavorando notte e giorno, quattro ricercatrici hanno dato un contributo decisivo contro la pandemia. Ma non dimenticano gli attacchi maschilisti subiti, le difficoltà incontrate in famiglia, gli ostacoli alla propria carriera. A Grazia queste scienziate spiegano perché in medicina, come altrove, le donne capaci siano considerate ancora un pericolo
Se i vaccini per prevenire il Covid sono stati sviluppati in tempi record e i primi farmaci per la cura cominciano ad arrivare lo si deve all'impegno di molte scienziate e ricercatrici. Dalle tre virologhe italiane dell'istituto Spallanzani di Roma che, per prime, riuscirono a isolare il nuovo coronavirus, a Ozlem Tureci, immunologa e cofondatrice, insieme con il marito, dell'azienda farmaceutica BionTech che collabora con Pfizer nello sviluppo dei vaccini antinfluenzali. E ancora, a Teresa Lambe, la scienziata irlandese che lavora al Jenner Institute e che ha partecipato alla nascita del vaccino di AstraZeneca, e alle biologhe Sarah Gilbert e Catherine Green, entrambe dell'Università di Oxford, che hanno lavorato al vaccino Oxford-Astrazeneca.
Ma l'elenco è lungo e comprende le scienziate in primo piano che abbiamo intervistato in questo articolo. Come Ariela Benigni, segretaria scientifica dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs, una delle ideatrici e firmatarie della lettera inviata lo scorso febbraio al premier Mario Draghi dal gruppo Top Italian Women Scientists di cui fa parte. «Da un lato, volevamo ribadire il ruolo delle donne della ricerca e confermare la disponibilità a dare il nostro contributo nell'emergenza Covid, dall'altro richiamare l'attenzione del governo sulle differenze di genere che vanno risolte», spiega. Al momento, dice, tra gli uomini laureati uno su tre ha compiuto studi scientifici, mentre tra le donne laureate solo una su sei ha una formazione scientifica o tecnologica. «E, invece, il contributo femminile è cruciale: siamo portate a mettere in discussione le nostre convinzioni e aperte all'ascolto, due qualità fondamentali per progredire nelle scoperte. Semmai, dovremmo lavorare sulla fiducia nelle nostre capacità. E imparare a essere più ambiziose».
Se nella ricerca le donne sono ormai la maggioranza, le proporzioni cambiano radicalmente quando si tratta di ruoli apicali. «È un problema anche culturale», dice Benigni. «Da madre so come, a volte, ci si senta in colpa nei confronti dei figli per il tempo che si dedica al lavoro. Ma poi ho capito che se sei felice dei risultati che hai ottenuto, la qualità dei momenti che trascorri con loro migliora e trasmetti un esempio di autonomia».
Può sembrare un paradosso, ma anche le scienziate impegnate in prima linea a combattere l'emergenza, durante i lockdown, hanno faticato a conciliare famiglia e ricerca. Lo racconta Francesca Dominici, docente di Biostatistica all'Harvard T. H. Chan School of Public Health e codirettrice della Data Science Initiative all'Università di Harvard, a Boston. «Come la maggior parte delle donne, le ricercatrici hanno vissuto una fase particolarmente pesante: è stato difficile concentrarsi lavorando da casa con i figli, il bucato, la spesa. Il peso dei lockdown è stato oggetto di uno studio specifico della National Academy of Sciences che parla di un impatto sulla carriera accademica che potrebbe avere ripercussioni a lungo termine».
Nel 2020, Dominici ha pubblicato uno studio sul rapporto fra polveri sottili e tassi di mortalità da Covid. «Che ho presentato a politici e amministratori americani affrontando le critiche dell'amministrazione di allora, quella del presidente Donald Trump. Ma i risultati, alla fine, sono arrivati: il nuovo presidente americano Joe Biden intende cambiare i limiti di sicurezza del particolato nell'aria». E l'estate scorsa la scienziata ha condotto un'altra ricerca sempre sulla correlazione fra polveri sottili generate dagli incendi e diffusione del coronavirus: «In California e in altre parti del mondo ci sono stati roghi devastanti. Noi abbiamo dimostrato che c'è un legame molto forte fra quel tipo di inquinamento e il numero di casi e di morti da Covid».
La professoressa Maria Rita Gismondo, virologa, direttrice del reparto di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano, conferma che «la presenza femminile nel mondo scientifico è cresciuta ma anche che permane il cosiddetto soffitto di cristallo: poche riescono ad arrivare ai vertici. Colpa della società che non permette alle donne di dedicarsi al lavoro senza preoccupazioni familiari, cura dei bambini, assistenza degli anziani. Nel mio gruppo ci sono parecchie ricercatrici giovani e vedo la loro fatica. In tempi di pandemia, poi, è diventato ancora più complicato. I bimbi, al nido, si sono sempre ammalati spesso ma ora, appena hanno un po'di febbre, scatta il tampone». Racconta di aver vissuto lei stessa in modo conflittuale la sua dedizione alla scienza. «Ho sempre provato sensi di colpa: nei confronti delle mie figlie quando ho fatto scelte che mi hanno portato all'estero per lunghi periodi. E nei confronti della mia carriera quando ho dovuto rinunciare a incarichi prestigiosi». Intervistata spesso sulla pandemia, Gismondo si è trovata più volte attaccata in quanto donna. «Sono stata oggetto di insulti maschilisti», racconta. «Purtroppo, da scienziata, vivo la discriminazione tutti i giorni, anche nelle riunioni di lavoro. Agli uomini viene sempre riconosciuta una maggiore autorevolezza».
Che il ruolo delle donne nel fronteggiare la pandemia sia stato decisivo nonostante gli ostacoli lo dimostra anche Maria Luisa Brandi, specialista in Endocrinologia e Malattie del metabolismo, un dottorato in Biologia cellulare, ma, soprattutto, medica e scienziata, come tiene a specificare: «Perché un'esperienza in laboratorio è importante: ti consente, davanti al paziente, di guardare oltre, di cercare soluzioni innovative». Di recente, Brandi ha aggiunto ai molteplici riconoscimenti per le sue ricerche ottenuti negli Stati Uniti il Boy Frame Award per la ricerca clinica, assegnato per la prima volta a un italiano. «Eppure, da noi, mi chiamano solo per parlare di osteoporosi (malattia che colpisce soprattutto le donne, ndr). Perché sono una donna? Purtroppo, la risposta è sì. Le scienziate come me sono un «pericolo» per gli uomini. Per questo hanno fatto il possibile per fermarmi prima che potessi raggiungere posizioni istituzionali che mi avrebbero consentito, per esempio, di costruire realtà importanti per la ricerca nel nostro Paese». Se il Covid ha messo in evidenza il ruolo delle ricercatrici, lei sottolinea che «l'immagine delle tecniche di laboratorio che passano le giornate con le provette in mano a fare test su indicazioni altrui non rende giustizia alle tante scienziate che hanno avuto idee innovative, se non rivoluzionarie».
Brandi, per esempio, ha dedicato due pubblicazioni al dimorfismo sessuale nell'infezione Covid-19. «Perché le donne si ammalano di meno e il tasso di mortalità è più basso? Partire dal dato che le infezioni virali broncopolmonari si comportano in modo diverso tra uomini e donne può aprire la strada a nuovi farmaci e cure». Non è un caso, conclude «che negli Stati Uniti uno dei finanziamenti più importanti nel campo della ricerca sul Covid sia stato assegnato ad una scienziata, la biologa Sabra Klein, della John Hopkins University, che lavora proprio su questo».
Enrica Brocardo



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