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Kaleîdos

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Numero 20 del 2021

Titolo: Il mio film rompe un tabù

Autore: Claudia Catalli


Articolo:
(da «Grazia» n. 46 del 2021)
«La scelta di Anne», premiato alla Mostra di Venezia e ora nelle sale, racconta la battaglia di una ragazza che cerca di abortire negli anni 60. «Anch'io ho vissuto quell'esperienza», dice qui la regista Audrey Diwan, «e ho voluto questa storia per spezzare la catena di silenzio, vergogna e senso di colpa che ancora pesa sulle donne»
«Non nasce per provocare, il mio film vuole aprire un dibattito su un argomento che nel 2021 è ancora tabù: l'aborto». Con queste parole la regista Audrey Diwan, francese di origini romene e libanesi, racconta la genesi del suo film «La scelta di Anne - L'Evénement», che ha vinto il Leone d'oro come miglior film alla Mostra di Venezia ed esce nelle sale il 4 novembre per Europictures. Un film-caso, nato dalle pagine autobiografiche della scrittrice Annie Ernaux, che nel libro «L'evento» (L'Orma) racconta la battaglia fisica ed emotiva di una studentessa decisa a porre fine alla sua gravidanza indesiderata. Siamo nella Francia degli anni 60, quando l'aborto era vietato e le pratiche clandestine causavano molte morti. «Non è un film d'epoca: ancora oggi l'aborto è mal giudicato in diversi Paesi e proibito in altri», sottolinea Diwan. Se in Italia quel diritto è regolato dalla legge 194 del 1978, in Texas è appena entrata in vigore una legge restrittiva. E il Papa ha appena dichiarato: «L'aborto è diventato un'abitudine bruttissima, è un omicidio». Parole definitive per quella che, secondo Diwan, è una scelta delle donne.
D. Come è nato il suo film su un aborto clandestino?
R. Quando ho letto il libro di Ernaux, sono rimasta scioccata: non avevo mai sentito di una ragazza che s'infilasse in pancia un ago affilato per porre fine a una gravidanza non desiderata. Una giovane lasciata sola, in balia di se stessa, senza il minimo sostegno medico. La storia ci insegna che l'aborto clandestino è una realtà che esiste nei Paesi in cui è vietato. Il mio film nasce per porci la domanda: «Siamo davvero d'accordo con quel livello di dolore, di violenza e di solitudine?».
D. Lei evidentemente non lo è.
R. Non lo sono come donna, come artista, ma anche come paziente che ha abortito. Quando lo dico, penso ogni volta se sia il caso di parlarne oppure no: è incredibile che mi faccia ancora simili problemi nonostante abbia girato un film sull'argomento proprio per spezzare la catena di silenzio, vergogna e senso di colpa che pesa sulle donne che abortiscono. È tutta questione di potere e di controllo, ma non si possono «controllare» le scelte delle donne e i loro corpi.
D. Che cosa ricorda del suo aborto?
R. Un forte dolore dovuto al silenzio a cui mi costringevo, sentivo una sorta di pressione sociale nel non dover parlare di questa cosa, anche se era legale. Per questo ho fatto un film: per parlarne liberamente, tutti insieme. Non ringrazierò mai abbastanza il mio Paese per aver reso legale l'aborto, altrimenti avrei dovuto patire le sofferenze che vedete provare alla protagonista, che si imbarca nel terribile percorso dell'aborto clandestino.
D. L'attrice Anamaria Vartolomei è alla sua prima prova importante. Come l'ha diretta e preparata?
R. Abbiamo parlato della libertà inalienabile delle donne. È fortunata ad appartenere a una generazione più libera rispetto alla mia: confrontarsi sull'aborto tra ragazzi, oggi, non è più un tabù, c'è più apertura mentale e più consapevolezza.
Claudia Catalli



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