Numero 20 del 2021
Titolo: Billie Jean, che vinse la battaglia dei sessi
Autore: Gianluca Ferraris
Articolo:
(da «Donna moderna» n. 46 del 2021)
Con questo nome è passata alla storia la partita del 1973 in cui la King batté Bobby Riggs. Molto più di un match: il simbolo della determinazione con cui la tennista più forte di sempre ha vissuto la sua vita e la sua carriera. Mettendo tutto in gioco
Chi scrive la propria biografia, sosteneva Henry James, può essere autoassolutorio, sincero a metà oppure onesto sino alla spietatezza; ma l'ultimo approccio appartiene solo a due categorie umane: i filosofi e coloro che al riepilogo si dedicano da anziani, dopo aver già esibito in pubblico le debolezze della loro vita. Identikit che calza a pennello per Billie Jean King e il suo «Tutto in gioco» (appena uscito in Italia per La Nave di Teseo). Chi ricorda il nome di Billie Jean lo assocerà per sempre alla «battaglia dei sessi», l'incontro di tennis del 1973 che la vide sfidare e battere Bobby Riggs: la prima vittoria di un'atleta donna su un uomo, risultato che travalicava i confini della banale esibizione ma anche quelli dello sport. Così come la sua storia, già in procinto di diventare un film dopo la pellicola del 2017 con Emma Stone e i 3 documentari dedicati al match, sublima quel quarto d'ora di celebrità preferendo indagare su cosa c'è stato prima. E soprattutto dopo.
«Sapevo difendermi ma preferivo attaccare» scrive a un certo punto Billie Jean, oggi 79enne. Sarebbe un'ottima alternativa al titolo che ha scelto per la sua autobiografia, dato che queste caratteristiche le ha espresse sin da bambina, e non solo in campo. Nata in una famiglia ipertradizionalista ma che incoraggia i figli alla pratica sportiva (suo fratello Randy diventerà campione di baseball), sceglie la racchetta perché si innamora di Althea Gibson, la tennista nera che vinse 5 titoli del Grande Slam prima di diventare attivista contro la segregazione razziale. «Avevo appena visto quello che desideravo diventare» continua. «E se riesci a vederlo puoi diventarlo anche tu». La passionaria Billie Jean da ragazza va in chiesa e, quando cominciano i suoi primi tour, gira con la Bibbia: «Volevo fare la missionaria». In un certo senso ci riuscirà. A 14 anni si ribella alle molestie del padre di un bambino a cui fa da babysitter. Si ribella sempre. Anche alle battute degli amici che la chiamano Quattrocchi e a quelle di Frank Brennan, il suo primo coach, che passa nella stessa frase dal consolarla al demolirla dopo una sconfitta: «Diventerai la numero uno al mondo. Perché sei brutta». La ragazza non accusa il colpo e, allenamento dopo allenamento, costruisce un fisico e un'anima che la porteranno a riempire le bacheche di coppe e le prime pagine di dichiarazioni decisamente fuori linea.
Nel 1961, a 18 anni da compiere, Billie Jean si aggiudica il doppio femminile a Wimbledon in coppia con Karen Suzman. «L'anno prossimo non so se ci sarò» dichiara dopo la vittoria. «Dovrò mantenermi al college e 100 dollari a incontro, che è quel che guadagnano le donne, non mi bastano». Infatti è costretta a fare l'insegnante part time. Ma a Wimbledon torna lo stesso e vince, stavolta nel singolo, battendo la numero uno al mondo Margaret Court. Sull'erba londinese Billie Jean trionferà altre 14 volte, lo spicchio più nobile di una carriera chiusa con 79 trofei totali dei quali 48 Slam. La più grande tennista di sempre, secondo molti addetti ai lavori. E anche una delle più povere, perché molte di quelle vittorie arrivano prima dell'accesso delle donne al professionismo e ai suoi benefit, dal montepremi ai viaggi gratis. Anzi, se molte campionesse delle ultime due generazioni hanno potuto diventare tali è soprattutto merito di King, che prima fondò l'associazione delle tenniste donne e poi condusse una lunga battaglia per uguali assegni ai vincitori dei tornei maschile e femminile. La parità arriva nel 1972, dopo che lei e molte colleghe minacciano di non iscriversi allo Us Open. E meno di un anno dopo proprio quel bivio fra una straordinaria carriera sportiva e un attivismo politico senza precedenti diventerà il teatro dell'episodio che la rende ancora più celebre.
Succede che Bobby Riggs, fenomeno della racchetta a cavallo degli anni 40 e 50 poi convertitosi agli incontri di esibizione, sfida Billie Jean a un match uomo-donna.
«Dimostreremo che il gap fra lo sport maschile e femminile è tale che Riggs, nonostante abbia quasi 30 anni di più, batterà facilmente King» dichiarano i promoter. Che per l'evento ideano uno slogan roboante: «La battaglia dei sessi». Fa parte dello show, come quando i pugili si guardano in cagnesco durante la cerimonia del peso. Serve a creare aspettativa, e funziona: articoli, trasmissioni tv, impennata delle scommesse. In California un'associazione di dirigenti aziendali promette persino che, se vincerà Billie Jean, per una settimana di fila i suoi membri prepareranno il caffè alle loro segretarie. Il circo mediatico cavalca il tema della disparità sessuale lasciandone però sullo sfondo le implicazioni sociali. Che esplodono davvero solo quando anche Riggs inizia a calcare la mano: «Alla conferenza stampa pre-match si presentò con una maglietta bucata sul davanti che lasciava intravedere i capezzoli, e disse che sarebbe stata meglio a me» ricorda la tennista. «Poi si rifiutò di fornire un reale parere tecnico: in campo contano il fiato e la gestione emotiva, disse più o meno, e le donne non hanno nessuno dei due».
Ce n'è abbastanza perché finalmente si indigni anche il movimento femminista americano, che in quegli anni ha un peso politico notevole ma dal dibattito sulla parità di genere nello sport si è sempre tenuto alla larga, guardando anzi con diffidenza a icone come Billie Jean. Diffidenza reciproca, va detto. E lo si vedrà anni dopo, quando la campionessa ormai al tramonto dovrà gestire da sola un complicato coming out: nel 1981 il marito chiede il divorzio, la sua omosessualità diventa di dominio pubblico e la sua amante storica intenta contro di lei una causa patrimoniale, mentre gli sponsor la abbandonano e lei è costretta a ripartire dai tornei minori per mantenersi. «Quando i grandi brand hanno cominciato a darsi battaglia per aggiudicarsi le atlete lesbiche purtroppo mi ero già ritirata» confessa con una punta di amara ironia. La stessa ironia con la quale racconta la vigilia della partita contro Bobby Riggs, annientato 6-4, 6-3, 6-3: «Pregavo sempre prima dei match. Di solito chiedevo a Dio di farmi giocare al massimo delle possibilità. Quella sera gli dissi soltanto: Ti prego, Signore, fa' che io batta quel buffone».
Gianluca Ferraris