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Kaleîdos

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Numero 17 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
«Se mi chiami ancora ti denuncio».
Storia di Federica
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
All'ora del tramonto, il rosso del cielo si riflette sui tetti di Roma, la Città eterna, mia culla e mio inferno.
Osservo dalla finestra lo spegnersi del giorno, mordendomi le labbra nervosamente.
R. non mi ha risposto.
Gli ho lasciato una marea di messaggi sulla segreteria telefonica, ho anche provato a contattarlo attraverso amici comuni, ma non si è ancora fatto sentire.
Stringo tra i denti un mozzicone di matita fino a scalfirla. Non resisto: digito il suo numero sul cellulare.
Alla mia telefonata risponde dicendo: «Se chiami ancora ti denuncio ai carabinieri!».
Resto ammutolita, sarà la nostra ultima conversazione. Non credevo di essermi spinta oltre il limite che separa l'affetto dalla molestia. Non credevo di averlo infastidito a tal punto, eppure le sue parole non mi suonano insensate.
Mentre il cielo si fa scuro e si accendono i lampioni in strada, tento di far luce su quel passato che il mio cuore di adolescente ha offuscato per liberarsi da un dolore sordo.
Tra i miei non funziona
Sono nata in una famiglia sempre sul punto di scomporsi. Mamma è cresciuta in una casa di studiosi, nonno e nonna impiegati in aziende strutturate. Papà invece è figlio di un contadino e una casalinga che non hanno superato la terza elementare e non si sono mai veramente integrati nelle dinamiche della «grande città». L'amore esploso tra i miei genitori si è presto rivelato un pericoloso ordigno: il matrimonio celebrato in fretta, dopo soli tre mesi di conoscenza, non ha retto alle turbolenze delle loro due giovani anime.
Assisto a episodi tristi sin dalla tenera età, aggravati da una brutta malattia contratta da mio padre. Lotte a colpi d'indifferenza, il disprezzo scagliato l'una in faccia all'altro attraverso il silenzio. Ben presto, tuttavia, quell'armamentario, benché affilato come lame, non è più sufficiente. Allora è violenza e inizia davvero la guerra. Un giorno, al rientro dalle vacanze, sul finire del pomeriggio, li vedo fronteggiarsi come mai avevano fatto, in un crescendo di pugni, calci e ossa rotte. Mamma implora pietà, e papà, con il volto trasfigurato dall'ira, chiama i nonni che la portano d'urgenza in ospedale assieme al mio fratellino. È stato all'epoca che mi sono immaginata, per la prima volta, orfana.
Divisa dalle loro vite instabili
Quella è stata l'ultima occasione in cui abbiamo vissuto tutti e quattro sotto lo stesso tetto. Dopo la separazione, raramente ho visto i miei genitori assieme nello stesso luogo, ed era sempre una forzatura. L'unità che ci aveva contraddistinti fino a quel giorno, per quanto precaria e delicata, si è spezzata: anch'io sono stata strappata in due parti diseguali. Mamma ci ha portati con sé a casa dei nonni, ma trascorro i weekend con papà, nel vecchio appartamento. Non posso essere con l'una ciò che sono con l'altro: ostile a mio padre quando condivido la casa con mamma, e rivale di mia madre durante i fine settimana trascorsi nella dimora paterna. Forse è proprio questa scissione interiore a disorientare le mie percezioni.
Il senso d'inadeguatezza si esprime in una serie di fenomeni bizzarri: mi strappo le sopracciglia, mangio le unghie fino a sanguinare e rosicchio le matite. Il mio grido non ha voce, ma è potente e liberatorio.
Sballottata tra le vite non semplici dei miei genitori, la mia crescita è un singolare gioco di prestigio. Inizio a ingurgitare il dolore, l'ansia e la paura che osservo intorno a me. Senza riuscire a esprimerli.
La mia passione morbosa
L'università mi getta in un turbine di relazioni che gestisco in un modo avido, da cannibale. Mi butto nella mischia, divento l'anima del gruppo. Li voglio accanto, tutti. Li voglio miei.
Conosco R. a Milano. All'inizio siamo solo amici, poi mi scopro innamorata di lui. La nostra storia è scandita dalle sessioni degli esami e dalle ore di studio che tengono impegnati entrambi. Siamo due giovani matricole con le camere stracolme di libri, fotocopie, appunti e il letto sempre in disordine.
Amo R., lo amo di un amore totalizzante, morboso. Di lui mi nutro per sopravvivere. Tuttavia, non gliel'ho mai detto.
Con il passare delle settimane sento l'esigenza di vederlo più spesso, sentirlo al mio fianco, anzi, no: dentro di me, nel sangue e nell'aria che ossigena i polmoni. Lo voglio sotto la pelle, dentro gli occhi, voglio sincronizzare il battito del mio cuore al suo.
Turbata dalla sensazione che lui non mi ami abbastanza, lo incalzo con richieste silenziose ma martellanti. Mi pare che il tempo trascorso insieme non sia sufficiente, allora mi presento a casa sua, mi fermo a dormire da lui più spesso portando con me gli indumenti necessari per lunghe trasferte.
Sono certa che condividendo la quotidianità otterrò l'attaccamento di cui ho bisogno. Lo convinco ad andare a fare la spesa e cucinare insieme; ripongo lo spazzolino da denti accanto al suo, e sistemo i miei abiti nel suo guardaroba.
«Amami!» gli impongo tacitamente.
Anziché avvicinarlo, la mia dipendenza lo spaventa e allontana. E alla fine lui mi lascia. Sono incredula, disperata. Colui del quale mi nutrivo mi ha abbandonata. Cerco, con la foga di un'assetata, di riconquistarne l'affetto: lo aspetto sotto casa, gli telefono, gli scrivo. Per cinque lunghi anni divento la sua ombra. Lui talvolta cede e ci risentiamo. Tuttavia, dopo qualche tempo fugge nuovamente e io ricomincio a inseguirlo. Oggi, il messaggio con cui R. ha preso le distanze da me in modo così definitivo mi ha scossa dai pensieri ripetitivi. E la minaccia di una denuncia per stalking mi ha svegliato: perché sono caduta così in basso?
Due anni di terapia
Comincio a far luce nel buio della mia angosciante ossessione e, tassello dopo tassello, compongo il mosaico del mio malessere. Negli anni a seguire mi avvicino sempre di più all'idea che la mia ansia e gli atteggiamenti ossessivi abbiano un'origine patologica. Sul finire dell'inverno del 2012 prendo appuntamento per una visita presso un ambulatorio specializzato dell'Ospedale San Raffaele di Milano. Mi viene diagnosticato il disturbo borderline di personalità. Inizio la terapia che consiste in tre o quattro ingressi settimanali in day hospital, tra gruppi terapeutici e incontri privati con una tutor.
Lego con le compagne di terapia, ma non possiamo incontrarci fuori da lì. Siamo carta velina, rischiamo di strapparci a vicenda.
In meno di due anni sono fuori. Nell'ottobre 2015, insieme a due di loro, fondiamo il progetto Emergenza Borderline. Nel 2018 registriamo l'associazione. Nel frattempo, sono diventata moglie di Marco, l'uomo che ha raccolto i miei pezzi dopo la rottura definitiva con R., che ha avuto la pazienza di lottare al mio fianco mentre riprendevo in mano la mia vita. Oggi siamo genitori di una bambina meravigliosa e l'ex ragazza di carta velina si è trasformata in una donna determinata e sicura di sé.
Federica Maria Carbone, 35 anni: vive a Milano, con il marito e la figlia e fa la fashion stylist nell'e-commerce. Ha fondato Emergenza Borderline (facebook. com/EmergenzaBorderline).



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