Numero 16 del 2021
Titolo: Il grido di dolore delle donne afghane: «non abbandonateci»
Autore: Barbara Schiavulli
Articolo:
(da «Donna moderna» n. 37 del 2021)
Studiavano, lavoravano, avevano una vita. Non credevano che i talebani sarebbero tornati. Invece è successo: da un giorno all'altro tutto ciò che avevano costruito è andato in fumo. Una giornalista di guerra, che conosce il Paese da 20 anni, dà voce al terrore di ragazze, mogli, madri di Kabul. E alle loro richieste di aiuto
Paura. Rischio. Incertezza. Sono state ore in cui la tensione mi si appiccicava addosso come il caldo di questi giorni. Lavoro da 20 anni in Afghanistan e molte delle donne a bordo di quel terzo volo partito dall'aeroporto da Kabul verso l'Italia le conosco: 100 in totale, alcune con i bambini, i mariti, una incinta di 8 mesi. Ragazze con le quali solo un mese fa, poco dopo che le truppe internazionali avevano iniziato il ritiro dal Paese, chiacchieravo davanti a un tè verde immaginando cosa sarebbe accaduto se fossero arrivati i talebani.
Erano preoccupate ma non ancora atterrite. Si sentivano diverse dalle loro madri che negli anni 90 avevano subito il regime dei talebani, dicevano che non l'avrebbero mai più permesso. Poi i fondamentalisti sono entrati a Kabul, che è capitolata nel giro di poche ore, e hanno cominciato a cancellare le donne. Quelle stesse donne alle quali noi occidentali avevamo promesso che nulla sarebbe stato come prima, che loro che avevano studiato, lavorato e avevano un ruolo nella società avrebbero potuto decidere delle loro vite e dei loro pensieri. Non è stato così. In una Kabul scioccata per la mancata risposta militare del governo, le donne, gli attivisti, gli artisti, gli atleti, chiunque avesse collaborato con organizzazioni straniere o con le istituzioni afghane, tutti sono stati costretti a nascondersi. Amina, 26 anni, di Nove Onlus, un'organizzazione italiana che si occupa di emancipazione delle donne, si è chiusa in cantina per 6 giorni con le sue 3 sorelle, mentre il padre e i fratelli presidiavano la porta. Maryam, un'alta funzionaria del governo del presidente Ghani, fuggito negli Emirati Arabi, ogni notte cambia rifugio temendo di venire catturata e imprigionata. Mentre qualcuno dice che bisogna dialogare, gli estremisti che per 20 anni hanno messo bombe in strade, scuole, ospedali e mercati vanno casa per casa e compilano liste nere: donne single da mandare in spose ai guerriglieri dai 12 ai 45 anni, donne che hanno lavorato per l'amministrazione afghana, traduttori degli americani, collaboratori dei giornalisti o delle ong, cantanti, sportivi.
«Se i talebani mi avessero raggiunta, sarei stata la prima a essere uccisa» mi dice Sahara Karimi, la prima donna a dirigere l'Afghan film festival: subito dopo la presa di Kabul è riuscita a ripiegare in Ucraina. «Gli strumenti musicali vengono distrutti, i cellulari e i computer controllati» aggiunge un'insegnante della scuola femminile Victoria, dove è nata la prima orchestra femminile afghana. «Per noi è la fine. Tutto quello per cui abbiamo lavorato, studiato e rischiato è andato in fumo». I talebani dicono di essere cambiati, che il popolo sarà felice sotto la loro Sharia, la legge islamica che hanno deciso di imporre nella loro versione.
Invece le donne piangono, si disperano, si nascondono sotto veli e burqa, spesso quelli delle madri, perché loro non li avevano neanche mai indossati, e cercano di far arrivare al mondo le loro storie: «Finché Internet funzionerà, ci proveremo, ma vi preghiamo: non credete a loro». Non si tratta con chi ha ucciso qualcuno della tua famiglia, con chi ha provato a rapirti, con chi ha tagliato gole, con chi ha piazzato ordigni a matrimoni e funerali, con chi ha compiuto attentati nelle moschee. Per le donne di Kabul questo è molto chiaro; per gli occidentali, che qui spesso mettono piede solo se protetti, non lo è altrettanto. Anche i soldati italiani sono amareggiati. Un generale mi dice che non dorme da giorni al pensiero di quello che sta succedendo: i suoi uomini in Afghanistan hanno versato sangue, combattuto, realizzato progetti. Anche se il presidente Usa Joe Biden ora sostiene che le truppe fossero lì solo per sradicare il terrorismo, e non per ricostruire il Paese, non è andata proprio così.
Tutto è cominciato, o meglio finito, nel febbraio 2020. Mentre noi eravamo distratti dal Covid, l'allora presidente americano Donald Trump siglava un accordo inaudito con i talebani. Gli americani hanno promesso che si sarebbero ritirati se i talebani non avessero più colpito i soldati stranieri e avessero contrastato al Qaeda e l'Isis. E così è stato. Il governo afghano non è stato interpellato, e quella è stata la fine del presidente Ghani, sempre più solo. Da allora i talebani hanno intensificato gli attacchi contro le forze armate afghane completamente lasciate alla loro mercé e contro i civili che ritenevano pericolosi. Questi ultimi 2 anni sono stati tra i più letali per la popolazione: ma non erano i nostri morti e poco ce ne siamo curati. I talebani non hanno contrastato l'Isis, anzi lo hanno usato permettendo che compisse sconvolgenti attentati, come quello a una scuola superiore femminile dove morirono 80 ragazze. O quello all'ospedale ostetrico nel quartiere azara di Kabul (gli azara sono l'etnia sciita afghana, tra le più martoriate dagli attacchi), dove 20 donne sono state freddate a colpi di kalashnikov. Una di loro, che una settimana prima aveva partorito una bimba, ha protetto la figlia con il suo corpo fino a esalare l'ultimo respiro. Le ha dato 2 volte la vita, mentre lei l'ha persa per colpa di quelli con cui oggi l'Occidente pensa di trattare. Il marito della donna, che ora deve tirare su 6 figli tra cui la piccola sopravvissuta, piange l'amore della sua vita: di lei gli è rimasta solo la foto scattata per il diploma.
Su quell'aereo della speranza decollato da Kabul c'erano anche Amina e le sue sorelle: hanno attraversato la città sapendo che avrebbero potuto essere catturate e uccise in qualsiasi momento. Poi il difficile ingresso in aeroporto: da una parte i talebani e il caos che le immagini degli ultimi giorni hanno ben mostrato, dall'altra i militari che non facevano entrare nessuno se non dopo grandi pressioni diplomatiche. Non conto le telefonate di lacrime e di conforto che si sono consumate in questi giorni, prima per la paura e la tensione e infine per il sollievo. Ora abbiamo il dovere di continuare a salvare quante più vite possibile, ma soprattutto di non permettere che i riflettori si spengano su tutte le Amina dell'Afghanistan che invece non hanno avuto la possibilità di fuggire e che, appena distoglieremo lo sguardo, saranno inghiottite dal buio dei talebani.
Come possiamo dare un aiuto concreto
Sono molte le associazioni rimaste in Afghanistan che continuano il loro lavoro tra mille pericoli.
A Kabul dal 2003 opera Pangea, che ha aiutato migliaia di donne con corsi di formazione, salute riproduttiva e avvio al lavoro. Non intende abbandonare il Paese, ma necessita di più risorse (pangeaonlus.org/contribuisci).
Women4Women, presente da 20 anni, lavora alla creazione di un corridoio umanitario per madri single e figli: ha lanciato una raccolta fondi con Emergency (support.womenforwomen.org).
Gli ospedali di Medici senza Frontiere sono sotto pressione e hanno bisogno di attrezzature mediche (www.medicisenzafrontiere.it/sostienici/fai-una-donazione).
Women's Ragional Network protegge le attiviste costrette a nascondersi (gofundme.com/f/protect-women-leaders-in-afghanistan).
Nove Onlus cerca di far uscire dal Paese operatrici umanitarie, attiviste, donne in pericolo (www.noveonius.org/emergenza-afghanistan). Ha anche lanciato con il magazine RadioBullets una mobilitazione social con l'hashtag #saveafghanwomen.
Barbara Schiavulli