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Kaleîdos

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Numero 13 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Sono stata strappata ai miei genitori
Storia di Selena
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
Dormo rannicchiata sotto le coperte, avvolta nel mio caldo pigiama di bambina. È l'alba del 12 novembre 1998, ho 9 anni, suona il citofono. Sgrano gli occhi, fuori è ancora buio. Sento mia madre rispondere, ne percepisco i singhiozzi e inizio a tremare. Non so cosa stia succedendo, ma intuisco che non è nulla di rassicurante. Poi, una voce: «Signora, dobbiamo portare via sua figlia. La svegli e la faccia vestire».
Capisco che è la fine della mia vita di sempre. Mamma entra in camera mia, mi scuote con dolcezza. Ha la voce strozzata. «Amore mio, bisogna che ti alzi. Devi andare con questi signori». Davanti al mio letto c'è una poliziotta immobile. Io mi alzo e obbedisco. Mi sfilo il pigiamino, mentre mia madre mi accompagna in bagno per lavarmi. Non oso fare domande. Sono attonita. Mi veste in silenzio, poi mette un cambio nel mio zaino di scuola e promette che verrà a prendermi la sera. L'agente e un'assistente sociale mi caricano in auto per portarmi in una casa famiglia.
Lascio mia madre sull'uscio di casa, una vestaglia addosso e lo sguardo smarrito.
Da alcuni mesi noi due viviamo da sole, quasi in simbiosi, da quando lei e papà si sono separati perché lui era troppo violento. Durante il tragitto non ho il coraggio di parlare. Chiedo soltanto se dove stanno per portarmi ci siano le finestre: ho il terrore di ritrovarmi in prigione. Intanto l'assistente sociale mi spiega che una mia cuginetta, allontanata qualche mese prima dalla sua famiglia per presunti abusi sessuali, ha rivelato che sarei stata molestata anch'io dal mio papà, con la compiacenza di mamma. Secondo i suoi racconti, saremmo state vittime di genitori, zii e parenti pedofili. E che, addirittura, di notte, ci avrebbero portate in un cimitero per violentarci nell'ambito di macabri riti satanici.
Mi sembra di vivere un incubo: quelle parole sono un pugno nello stomaco, troppo forti per una bambina. Tento di replicare che mio padre non è mai stato uno stinco di santo, ma a me non ha mai torto un capello. Quelle due donne non vogliono ascoltarmi: hanno una loro idea in testa e nessuno può fargliela cambiare.
Gli psicologi non mi credono
Tiro fuori una forza inconsueta per una bambina della mia età, imparo a trattenere lacrime e disperazione giorno dopo giorno. Trascorro più di tre anni in quella struttura, anni tra i più difficili della mia vita. Chiedo a più riprese di incontrare mia madre, ma me lo vietano. «Finché non ti deciderai a spiegarci che cosa è successo davvero, non possiamo fartela rivedere» mi dicono. Solo che io quegli abusi non li ho mai subiti, come posso raccontare qualcosa che non è mai accaduto? Passano settimane, mesi, anni e la speranza di tornare a casa diventa sempre più flebile.
Trascorro le mie giornate tra la scuola e la casa famiglia.
La psicologa insiste sul fatto che io sia stata abusata, come se lei avesse la chiave di quel rebus irrisolto, ma a nulla valgono i miei tentativi di convincerla che si stanno sbagliando, che mia cugina deve essersi inventata tutto.
Poi, stremata dal non essere creduta e ascoltata, scelgo il silenzio e ne rimango imprigionata per quasi vent'anni, mentre assistenti sociali e psicologhe sputano sentenze contro i miei genitori e soprattutto su mia madre: secondo loro non è una brava donna perché non mi ha protetto ed è stata complice di mio padre.
Mio padre viene assolto
Sono sottoposta anche a una visita ginecologica che accerta le violenze subite, e da allora mi dicono che non ha più senso negare: dunque sarei solo una bugiarda priva di coraggio.
Poi, la svolta.
Al processo contro mio padre, i medici legali smentiscono quel referto e quindi le violenze, fino a che, nel 2001, lui è assolto.
Solo in quel periodo gli assistenti sociali mi danno la possibilità di incontrare finalmente mia madre, vietandomi comunque di tornare a casa.
La prima volta che ci ritroviamo faccia a faccia dopo tanto tempo mi sembra di vedere un fantasma, quasi non ricordavo più il suo viso.
Vorrei inondarla di domande, chiederle perché ci abbiano allontanato, ma assistenti sociali e psicologhe mi hanno addestrato a dovere: zero riferimenti alla mia vicenda. Così mi ritrovo a darle un timido abbraccio, in silenzio, soffocando lacrime e singhiozzi.
Per anni ci incontriamo solo davanti alle psicologhe.
A 14 anni lascio la casa famiglia e vengo affidata a una coppia di settantenni fino ai 22. Tra me e loro s'instaura un rapporto cordiale ma nulla di più. Nel mezzo, la mia vita scorre tra studio, colloqui settimanali con psicologhe e quello più importante con mia madre.
A 18 anni non voglio più vederla
C'è troppa confusione nella mia testa, mi sembra di essere diventata matta, arrivo a pensare che quelle violenze ci siano state davvero e che per uno strano meccanismo di difesa io le abbia rimosse. In realtà, non so più chi sono io, né chi è lei. Averla nella mia vita, seppure in brandelli di tempo, servirebbe soltanto a disorientarmi ulteriormente.
Vado avanti con il cuore sommesso e il sorriso spento. Mi diplomo, cerco di schivare il passato come il più temibile dei nemici. La strada verso la libertà la imbocco a 22 anni, quando psicologhe e assistenti sociali scompaiono dalla mia vita. Quando la loro ombra si allontana da me, incontro l'amore. È un infermiere, ci conosciamo in ospedale, dove lavoro come operatrice sociosanitaria.
Grazie a lui inizio a pensare con la mia testa, senza farmi più condizionare da nessuno.
Inizio a sentire la nostalgia di mia madre che si rafforza quando divento madre a mia volta. Ricordo bene quando avevo appena partorito che chiedevo consigli alle mamme delle compagne di stanza in ospedale. Non sapevo neanche come si tenesse in braccio un neonato, non avevo mia madre vicino e mi sentivo sola al mondo. Nel 2017, trovo il coraggio di chiamarla. Sentire la sua voce al telefono è come rinascere.
Dopo pochi giorni, il nostro incontro. Mi tremano le gambe, piango, rido, sono un frullatore di emozioni contrastanti.
Oggi mia madre è fondamentale
Per me e per le mie figlie che nel frattempo sono diventate due. Io ho fatto pace con il passato, e anche con mio padre, con cui stiamo ricucendo un rapporto lacerato troppo presto. Dall'inchiesta giudiziaria, che mi ha visto mio malgrado protagonista, mi sono tenuta abbastanza lontana per paura di soffrire ancora.
So che mia cugina e io eravamo al centro di un'indagine che ha visto allontanare dalle famiglie sedici bambini della nostra zona per presunti abusi. Nessuno di loro è mai più tornato a casa.
Tra tutti, sono stata l'unica a non avere mai ammesso le violenze.
Ci sono ancora parecchi buchi neri nella mia testa: ho provato a chiedere a mia cugina perché mi abbia tirato in ballo in questa squallida storia, ma non vuole rispondermi. Sua madre è morta in carcere, suo padre ha scontato la pena e ora è libero. Se solo lei desse una risposta ai miei perché, forse ritroverei la pace.
Selena, 30 anni, operatrice socio-sanitaria, vive in provincia di Reggio Emilia con il compagno e le loro due bambine.



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