Logo dell'UIC Logo TUV

Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Kaleîdos

torna alla visualizzazione del numero 10 del Kaleîdos

Numero 10 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
La «bestia» si è portata via i miei fratelli
Storia di Beatrice
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
Stanotte attendo un miracolo, ormai solo questo può salvare mio fratello Ottavio. Fuori dalla finestra il cielo stellato riscalda il cuore, ma io avverto solo gelo dentro di me. Prego in silenzio. Dio, non portarmelo via.
La fede vacilla, in questi momenti, mentre l'angoscia stringe la gola. Nel silenzio della mia casa bolognese squilla il telefono. La voce di mia madre sussurra: «Ottavio non è più con noi». Poi le lacrime annacquano le parole. Le annegano. È successo tutto così in fretta che non sono riuscita a trovare un volo per raggiungere la mia famiglia in Sicilia.
Da qualche giorno Ottavio rifiutava cibo e acqua. «È una banale influenza stagionale» sosteneva il medico, ma le sue condizioni sono peggiorate e quando lo hanno ricoverato aveva l'ulcera perforata. So per esperienza che i medici si spaventano quando arriva in pronto soccorso un paziente in carrozzina attaccato a un respiratore 24 ore su 24 come mio fratello perché non conoscono la patologia. Magari hanno indugiato e nel frattempo l'ulcera aveva provocato una peritonite. E non c'era più niente da fare.
L'unica sana di tre
All'aeroporto, mentre attendo l'imbarco, non riesco a smettere di pensare ai miei 38 anni con lo stomaco stretto dalla paura e il cuore appesantito dal senso di colpa perché cammino e respiro senza alcuna difficoltà. Sono la prima di tre figli, l'unica nata sana. Silvio e Ottavio, invece, hanno ereditato la distrofia muscolare di Duchenne, una feroce malattia genetica che colpisce solo i maschi e che me li ha portati via precocemente. Prima Silvio, per una complicanza respiratoria, e ora Ottavio, per una stupida ulcera gastrica che nessun medico ha saputo diagnosticare in tempo. Il giorno in cui è mancato Silvio, diciannove anni fa, io ero una matricola della facoltà di Medicina. In punto di morte gli ho promesso: «Darò la mia vita al prossimo, così mi prenderò cura di te in eterno».
Non ricordo di aver festeggiato un compleanno senza essere attraversata dal pensiero che i miei fratelli potevano morire da un momento all'altro. Spegnevo le candeline, esprimevo il desiderio di vederli sani, ma sapevamo che le loro vite erano appese a un filo.
La distrofia muscolare di Duchenne è un killer silenzioso che si manifesta intorno ai due anni e inizia a divorare voracemente le carni. Si mangia tutti i muscoli, compreso il cuore, e ti riduce a un mucchietto di ossa lasciandoti il cervello intatto, sano, ferocemente lucido.
Un tempo si moriva bambini o adolescenti, prevalentemente a causa di complicanze respiratorie o al cuore. La chiamavano la malattia degli angeli. Non esiste una cura. Grazie ai progressi della scienza, i malati che hanno una diagnosi corretta e una terapia adeguata possono vivere più a lungo e meglio. Su una carrozzina, con un respiratore, un sacco di pastiglie da prendere, la profilassi per le infezioni e un monitoraggio cardiopolmonare.
Gestire questa malattia prevede il coinvolgimento di tutta la famiglia: io oggi sono un medico, ma molto prima di diventarlo ho imparato nomi di farmaci impronunciabili e manovre di fisioterapia con cui alleviare i disturbi dei miei fratelli. Poi ci sono le cure da gestire e le corse in ospedale per le emergenze. Purtroppo, non rare.
Ottavio mi dà la forza
Dopo la morte di Silvio, il legame con Ottavio si rinsalda. È lui a darmi la forza di laurearmi e superare i difficili anni della specializzazione in Neuropsichiatria.
Lo ricambio prendendomi cura di lui. E dei nostri genitori.
La mia sfera privata e sentimentale è uno spazio sottile. C'è troppo bisogno di me perché io possa dedicarmi a me stessa. A dare una spinta alla mia vita è l'incontro con un medico dell'Ospedale Nigrisoli di Bologna. Si chiama Marcello Villanova, è un neurologo di fama e ha messo in piedi il Centro di riabilitazione e recupero malattie neuromuscolari per prendersi carico delle numerose problematiche secondarie associate alla distrofia muscolare di Duchenne.
Ottavio ha voluto che lo accompagnassi e io sono rimasta folgorata da questo specialista che, da solo, si occupa di un migliaio di pazienti. Avevo ancora un'impronta universitaria delle malattie e del lavoro del medico, ma lui mi apre la mente: mi fa capire che si deve andare oltre la diagnosi, tendendo una mano a tutta la famiglia del malato. E lo fa anche con la mia.
Voglio lavorare con lui
Per aspirare a lavorare con Villanova devo trasferirmi a Bologna, ma sono piena di perplessità a lasciare la mia famiglia.
«Impara e diventa un medico di valore! Solo così potrai aiutarmi davvero» mi incita Ottavio. Pochi mesi più tardi, incoraggiata da mio fratello, lascio Catania per il capoluogo emiliano: anche se lì non conosco nessuno mi imbarco in questa nuova avventura e vado a lavorare al Nigrisoli. L'attività nel reparto è fantastica, sono felice, i miei pazienti diventano la mia nuova famiglia, ma vivere da sola non mi piace.
Anche se a distanza, è sempre Ottavio a spronarmi a non mollare. Ottavio, scrittore, regista e poeta, sempre di corsa perché ogni ora in più di vita per lui è un regalo prezioso. Ottavio che non parla perché non ha aria nei polmoni, ma scrive parole che incantano. Ottavio che sta attaccato a un respiratore 24 ore su 24, ma è pieno di amici e ha trovato l'amore.
«Segui il tuo sogno, fallo anche per me!» mi sprona. Tengo duro. Cerco un rimedio alla solitudine iscrivendomi in palestra e lì conosco Gaetano.
La sua presenza mi completa, superiamo tante difficoltà, ci sposiamo tre anni dopo e poco prima del matrimonio scopro di essere incinta.
«Dottoressa, non molli»
Ora che Ottavio non c'è più, la mamma si sente vuota e io con lei. Vorrei essere morta al posto di mio fratello. La sua compagna ci sta accanto, i miei pazienti mi scrivono messaggi d'incoraggiamento, m'invitano a non abbandonarli.
Per un momento penso di mollare tutto e tutti, non voglio più stare nella sofferenza. Ma non li lascerò. Continuerò a dare la mia vita al prossimo.
Un giorno uccideremo la «bestia», la distrofia muscolare sarà sconfitta e il sacrificio di Silvio e Ottavio avrà un senso.
Porto le mani sulla pancia. La creatura che sto per dare alla luce scalcia e allora sorrido. Ho perso due fratelli, ma negli occhi delle mie figlie li rivedrò per sempre.
Beatrice Brancalion, 42 anni, catenese, vive a Bologna con il marito e due figlie. È specializzata in Neuropsichiatria infantile e dal 2009 lavora all'Ospedale Nigrisoli, uno dei centri più conosciuti in Italia per seguire e monitorare la distrofia muscolare di adulti e bambini.



Torna alla pagina iniziale della consultazione delle riviste

Oppure effettua una ricerca per:


Scelta Rapida