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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Kaleîdos

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Numero 9 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Lotto per salvarli dell'eroina
Storia di Luana
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
C'è quello che arriva in inverno con una manica su e l'altra giù, già in astinenza. È un cadavere che cammina, ma la cosa più importante è raggiungere il pusher. C'è il ragazzetto che esce con lo zaino da scuola e va a prendersi la dose. Quindici, diciassette anni, non di più. Entra subito nel bosco e sparisce. C'è la giovane donna per cui puoi solo chiamare l'autoambulanza, dopo averla convinta che è l'unico modo per salvarsi la vita.
Non è facile fare la volontaria all'ingresso del bosco di Rogoredo, periferia di Milano. Fino al giro di vite avvenuto nell'ottobre 2019, questa zona sporca e senza legge era uno dei principali centri di spaccio del Nord, frequentata ogni giorno da centinaia di persone in cerca di droga.
Se vuoi aiutarle a uscire dalla dipendenza, metti in conto che molti di loro sono a un passo dalla morte, in condizioni che rasentano l'atrocità. E fa un male da morire.
Ho iniziato nel 2016. Venivamo in tre o quattro persone, un paio di volte a settimana. All'epoca la nostra associazione era l'unica a distribuire da bere e da mangiare per avvicinare i ragazzi e creare un rapporto di fiducia. Tipo, ti offro un biscotto, si fanno due chiacchiere, inizi ad aprirti con me.
Funziona. Solo il primo anno ne abbiamo accompagnati quindici alla Remar, una comunità cristiana con cui stiamo collaborando. Molti hanno voglia di uscire; ma la paura dell'astinenza la supera. Paura dei nervi che tirano come se dovessero spezzarsi. Di non trattenere più le feci, della nausea e del vomito. Io vorrei che ci fosse un obbligo alla cura, ma non è così. Noi possiamo fare del nostro meglio per convincerli e sostenerli un passo dietro l'altro, ma nulla funzionerà davvero se non parte quell'unica salvifica richiesta: «Aiutami».
Lo so bene. Ci sono passata anch'io.
I miei tre anni tossici
Ho 17 anni quando muore papà. È il 2 gennaio 1987 e mi cade il mondo addosso. Abito in un paese alla periferia di Milano, ci conosciamo tutti. Il 7 febbraio fermo un amico che fa uso di eroina.
«Me la fai provare?».
«Sei sicura?».
La tiro. Non mi piace il suo retrogusto di medicinale. Mi ricorda l'anestesia con la maschera di quando mi hanno operato alle tonsille. Sono anni che abuso di hashish, che vivo sconvolta. Papà aveva problemi di alcolismo, mamma pure. Da quando lui non c'è più, vedo gli amici di mia madre girare in casa nostra, mettersi il pigiama e prendere il posto di mio padre. È una situazione insostenibile.
Mio fratello più grande va a vivere in Spagna. A casa resta il più piccolo, disabile, con un forte ritardo psichico. La mia migliore amica si fidanza. Sono a un punto in cui vivere non m'interessa più. Litigo con tutti. Mi massacro.
Ci metto poco a passare al buco. Per me è una liberazione. Non sono più la figlia dei due alcolisti. Sono la tossica, ho un'identità tutta mia.
Siamo in cinque a farci con la stessa siringa, bruciando l'ago per disinfettarlo. Non ci rendiamo conto che la nostra strategia non ci serve a niente perché c'iniettiamo l'uno il sangue dell'altro. Se non mi ammalo è per un miracolo.
Trovo un lavoro in un'impresa di pulizie, ma è impossibile mantenerlo, la testa è matta. Mi schianto. Disfo un'auto, faccio danni. Mia madre e mio fratello scoprono che uso eroina e mi chiudono in casa, ma io scappo e mi rifugio da un ragazzo.
Una nuova alba
È appena diventata maggiorenne, abita sul mio pianerottolo, frequenta una chiesa protestante e quando parla, prega o mi legge la Bibbia, mi trasmette una grande sensazione di pace.
«Luana, ma perché non ti fai aiutare. Conosco una comunità. Ce la puoi fare».
Lei garantisce per me e mi accoglie in casa sua, dove entro in astinenza. Posso uscirne anche da sola, mi dico, lascio quell'appartamento e dormo in giro. In quindici giorni sono già fatta nel pisano. Mi amareggia il mio fallimento, sono triste per lei che si è spesa per me. La cerco e le dico semplicemente la verità.
«Patrizia, non riesco».
«Dai, Luana, andiamo in comunità».
L'alternativa è fare la vagabonda in Spagna con mio fratello maggiore. Se seguo lui, muoio, mi dico. E accetto quella nuova vita piena di regole. Gli educatori curano con amore. Mi sento amata, più figlia che paziente. Ma è durissima. Devono demolire la mia arroganza. E a me tocca imparare a obbedire a ogni semplice comando. O ti pieghi o ti spezzi, non ci sono altre vie. Scelgo di piegarmi.
Esco dalla comunità pulita, nuova e fidanzata con un ragazzo che diventerà mio marito. Sua madre, donna eccezionale, ci tende la mano. Ci aiuta a costruirci una vita e una casa. Diventiamo genitori di una splendida bambina, Veronica. Ma mio marito scivola ben presto nell'alcol e nel gioco, diventa violento. Io invece ho imparato a volermi bene, vado dritta per la mia strada.
Prego un Dio vivo, presente. Gli chiedo la pace per mio marito, per mia madre e il mio fratellino. Quando Vero ha 12 anni, mi separo da suo padre. Per tre anni dovrò fare tre lavori per mantenere me e mia figlia, ma ne vale la pena. La mia «bambina saggia» riesce a darsi le regole, andare bene a scuola e avere un carattere docile ma fermo.
L'eroina ti porta a farti schifo
Oggi, quando parlo con i ragazzi al boschetto, leggo dentro ai loro occhi. So che se uno è fatto di coca andrebbe avanti a parlare per ore facendomi solo impazzire. Non va meglio con la roba: «Ti sta salendo, tra mezz'ora non sai più chi sono». So cosa provano quelle persone, conosco l'abisso di lucidità in cui ti accorgi di che uomo o che donna stai diventando. Ricordo bene certi momenti di astinenza in cui avrei puntato le vecchie fuori dagli uffici postali. La dipendenza è una questione di vita, di quotidianità. Per questo deve scattare la consapevolezza di volere l'aiuto dell'altro per lasciarsi la droga alle spalle.
Oggi, se potessi, vorrei salvarli tutti, ma è sempre più difficile. La mia generazione è stata decimata dall'eroina, conto più i morti che i vivi, ma c'è chi si è ripreso anche dopo essersi fatto per dieci anni.
Di questi tempi è diventato tutto più difficile, circolano sostanze che in dodici mesi ti divorano, ti annientano, e ti rendono uno zombie. Se ne vedono tanti. Ricordo un venticinquenne bellissimo, camicia bianca, ordinato.
«Guarda che finisci male» gli ho detto quando l'ho conosciuto prima che s'inabissasse nel boschetto. «Io non ci casco dentro» ha risposto. Un anno dopo era irriconoscibile, aveva persino tutti i denti rovinati. Altri li abbiamo accompagnati in ospedale che avevano valori incompatibili con la vita.
Poi c'è lui, un ragazzino che mi fa una tenerezza infinita, la vita non gli ha risparmiato nulla, un dramma dietro l'altro alle spalle.
L'ho conosciuto l'estate del 2016, era un fiore. L'inverno successivo stanziava nel boschetto, dove le condizioni di vita sono disumane. È inconcepibile come ci si riduca. Non l'ho più visto per un anno e cinque mesi.
Poi è riapparso di nuovo in forma. Era stato in carcere, dove si era ripulito.
«Perché sei tornato qua?».
«Non ho niente. Dove vuoi che vada?».
Lo scorso settembre, rovinatissimo: «Portami in ospedale, Lu, non sto bene».
È stato ricoverato due mesi e mezzo con il rischio di amputazione di una gamba.
Poi ha fatto cinque mesi e mezzo fuori e dentro le comunità. Con lui mi sono messa in gioco totalmente, vincendo e perdendo allo stesso tempo.
Ma io lo amo. Oggi è di nuovo in strada.
«Lu, apri una comunità e io ce la faccio» mi dice.
Io continuo a fare il tifo per lui. A pregare. Ad andare al boschetto con i sacchetti di viveri.
Vittime collaterali
Poco tempo fa una ragazza è stata risucchiata da un treno. Forse ha attraversato i binari senza rendersi conto che il convoglio era in arrivo. Forse era fatta. Forse correva a comprarsi una dose e non si è fermata perché la dipendenza non aspetta. Passava tutto il tempo in cui facevamo servizio lì a Rogoredo vicino a me a guardare cosa usciva dai nostri sacchetti gialli dell'Esselunga.
«Ce l'hai un'altra fetta di pizza?» mi chiedeva a macchinetta la mia «zecca».
«Lasciamo qualcosa anche per gli altri, che dici?». Poi naturalmente le davo da mangiare tutto quello che voleva.
Ora stiamo andando una volta a settimana perché la nostra squadra si è rimpicciolita: uno dei ragazzi e sua moglie che erano in team con me sono diventati da poco genitori di una splendida bambina.
I volontari sono quasi tutti ragazzi, tra i 25 e i 30 anni, membri della mia chiesa, cresciuti nei valori della solidarietà e della compassione per chi soffre e fanno un bel training prima di venire con me nel boschetto.
Tra loro c'è anche mia figlia, l'ex bambina, oggi ancora più saggia. Si è laureata, ha già un posto fisso. È il mio orgoglio e il mio riscatto.
Luana Torza, 50 anni, vive vicino a Milano con la figlia Veronica, 25. È commessa in una bottega storica e volontaria di un'associazione della cooperativa sociale Ministero Sabaoth di Milano.



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