Numero 4 del 2021
Titolo: IPOVISIONE- Ipovedenti: la nascita di una categoria
Autore: Angelo Mombelli
Articolo:
La ricerca ABACUS: il mondo sommerso degli ipovedenti
Dai primi anni '80, nei paesi occidentali la società iniziò ad interessarsi alla parte "grigio-scura" della visione, ovverosia a coloro che pur non essendo ciechi, avevano grossi problemi di vista. Il miglioramento della situazione economica del mondo capitalista e la maturazione della coscienza collettiva, hanno consentito un atteggiamento più attento nei confronti della disabilità. Inoltre, l'entità del fenomeno dell'ipovisione si faceva progressivamente più significativa, da una parte a causa del progressivo allungarsi dell'età media della vita umana, con l'istaurarsi di patologie tipiche della terza età che un tempo erano alquanto rare, dall'altra grazie al progresso tecnologico in campo medico-chirurgico. Non dimentichiamo che tra le scienze che maggiormente sono state potenziate grazie alle moderne tecnologie, c'è indubbiamente l'oftalmologia.
Per queste ragioni, il numero delle persone con bassa visione prese ad aumentare esponenzialmente.
In Italia, dove l'interesse per l'ipovisione restò per anni relativo, fu la dirigenza dell'Unione Italiana Ciechi a prendere in considerazione il problema. La prima domanda alla quale rispondere era: quanti sono gli Ipovedenti? E poi: di quali patologie sono portatori? Come vivono nella quotidianità? Quali sono le loro aspettative e le loro principali criticità? Nel 1988, per dare una risposta ai quesiti di cui sopra, l'Unione propose al Ministero del Lavoro, che la finanziò, un'indagine conoscitiva sulle persone ipovedenti.
Essa si svolse nel 1989 e venne effettuata in collaborazione con la società Abacus, mediante tre interviste di gruppo per consentire l'analisi delle problematiche sul tappeto e predisporre un questionario. 399 interviste personali furono rivolte in città campione e furono effettuate 12.036 interviste telefoniche (corrispondenti a circa 31.000 persone), per conoscere l'entità del fenomeno e le patologie.
Come è facile immaginare, a distanza di trent'anni da allora, i dati raccolti, a livello numerico e soprattutto per quanto riguarda le patologie causa di ipovisione, risultano oggi inattuali: a colpire però sono alcune considerazioni emerse dalle interviste individuali circa la situazione socio-esistenziale delle persone ipovedenti, che temiamo essere ancora attuali.
Per quanto riguarda il livello di istruzione, ad esempio, emerse che solo il 23% degli intervistati aveva ricevuto un'istruzione superiore (liceo, università), dato che si collega a quanto l'indagine ci racconta sul sentimento di tanti ipovedenti verso la propria esperienza scolastica: solo il 55% degli intervistati ammise di avere ricordi positivi della scuola e uno su quattro giudicò insufficiente la propria carriera scolastica. Molti tra gli intervistati lamentarono difficoltà nell'inserirsi nel contesto scolastico e a socializzare con i compagni normovedenti ("Per me il passaggio ad una scuola normale è stato terribile, provocandomi vari tipi di stress nervoso"), alcuni segnalarono l'indifferenza degli insegnanti circa il problema visivo ("Gli insegnanti, se tu riuscivi a seguirli, bene per te: se no rimanevi indietro"). Il quadro che emerse fu di una totale impreparazione del contesto scolastico nei confronti dell'ipovisione: un'impreparazione che possiamo definire sia culturale che tecnologica, considerato lo scarso se non nullo riferimento agli ausili tiflotecnici.
Anche il dato sul lavoro fa pensare: solo il 46% del campione dichiarò di avere un lavoro, più della metà risultò invece disoccupata. Le cause sono ovvie: da una parte la precarietà della situazione lavorativa una volta emerse le difficoltà visive ("Lavoravo come contabile nell'amministrazione di una grossa azienda e poi... quando sono arrivati i primi computer mi sono accorto di avere delle difficoltà, ho appurato l'impossibilità di svolgere quel lavoro. Ho fatto dei colloqui, come personalità andavo bene, nessun problema, avevo esperienza e tutto, ma c'era la vista... con la vista che ho quel lavoro non lo posso più fare"), dall'altra la gamma estremamente ristretta delle professioni accessibili a chi ha problemi di vista.
L'indagine Abacus fornì un altro dato particolarmente sconcertante: solo il 44% degli ipovedenti adulti risultò avere un rapporto di coppia; molti tra gli intervistati vivevano infatti in casa con i genitori. E tra quelli che erano fidanzati o sposati, il partner risultava in molti casi anch'esso ipovedente.
Se ammettiamo che la cellula di base della società è rappresentata dalla coppia, è facile intuire quante difficoltà di inserimento nel tessuto sociale incontrino gli ipovedenti. Utilizziamo il presente perché riteniamo che il dato emerso nell'89 sia purtroppo attuale. La prolungata convivenza con la famiglia d'origine comporta problemi di non facile soluzione: ad ogni persona, per la propria maturazione, è necessario vivere una serie di esperienze, affrontare situazioni in piena autonomia, e questo non è sempre possibile per il senso di iper-protezione di cui i genitori circondano a qualunque età il soggetto con minorazione creando all'interno del contesto familiare tensioni costanti e sovente insuperabili ("A me il problema lo creano i miei genitori. Per il fatto che non ci vedo bene a loro fa paura che io cammini da solo, che vada in giro da solo... È una forma di possessività che oltretutto mi opprime. Io esco solo o con gli amici, alla sera mi accompagnano a casa, ma a volte sono solo. Mia madre mi dice: stai attento alle macchine a questo, a quello... una notte si è messa a telefonare alla polizia e agli ospedali, duecento telefonate per trovarmi!").
Gli eventi della quotidianità provvedono a rammentare le anomalie della situazione sensoriale, che portano il soggetto a vivere in continuo stato di tensione e, a volte, di depressione. Accettare se stesso per ciò che si è e non per ciò che si sarebbe potuto essere è un processo indispensabile per poter convivere con la disabilità e creare le condizioni necessarie allo sfruttamento ottimale del residuo visivo e quindi al concreto inserimento nel contesto sociale. Tuttavia, il passaggio suddetto avviene con estrema difficoltà: tendono spesso a prevalere comportamenti tipici dello stadio infantile, ma soprattutto emerge una forte tendenza all'auto-colpevolizzazione e, in proiezione, alla colpevolizzazione degli altri, della società in generale.
Tornando all'indagine Abacus, va detto che essa aprì un dibattito su un tema poco discusso, quello della maternità della donna ipovedente: aspettative, paure e dubbi risultavano mescolarsi ad una generale disinformazione circa gli aspetti medico-scientifici della questione; tale disinformazione era anche dovuta ad un atteggiamento difensivo, un "non voler essere pienamente consapevoli del problema": un processo di rimozione o sottovalutazione dettato dalla paura e dall'incapacità di affrontare il problema in tutta la sua drammaticità.
In un'intervista di gruppo svoltasi a Napoli, una donna ipovedente, portatrice di una patologia ereditaria, risultò madre di tre figli. Le fu chiesto della situazione dei ragazzi e lei rispose serenamente che i figli non avevano problemi di vista. Come poteva saperlo? Glielo domandammo: la sua risposta fu che il marito tutte le settimane faceva loro contare le dita della mano... Attraverso la Sezione UICI di Napoli, nei giorni successivi, facemmo visitare da un oculista tutti loro, marito compreso.
In generale, fu in effetti la disinformazione e l'isolamento delle persone con problemi visivi a colpire chi analizzò i risultati di questa prima indagine statistica sul mondo dell'ipovisione. Spesso i problemi emersi si sarebbero potuti risolvere con poco. Un esempio: nell'incontro di gruppo svoltosi a Milano, una signora anziana raccontò che nel passato il suo passatempo preferito era quello di cucire e ricamare, ma lo scarso residuo visivo non le consentiva più di svolgere con frequenza quel passatempo perché doveva ricorrere alla vicina di casa per infilare il filo nella cruna dell'ago. La prassi non poteva essere frequente per cui la signora viveva il rammarico del tempo passato. Dieci minuti dopo disponeva di un "infila aghi". A distanza di trent'anni ricordo ancora quel grazie colmo di commozione e il sorriso da un orecchio all'altro.
Dall'altra parte, alcune criticità emerse necessitavano però di interventi strutturali, decisamente più energici, che solo la nostra Unione avrebbe potuto promuovere. Possiamo dire che l'indagine Abacus ebbe un notevole impatto nella politica associativa del decennio successivo, soprattutto per le iniziative di carattere riabilitativo e legislativo. Ve lo racconterò nel prossimo numero!