Logo dell'UIC Logo TUV

Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere dei Ciechi

torna alla visualizzazione del numero 4 del Corriere dei Ciechi

Numero 4 del 2021

Titolo: ATTUALITÀ- Salviamo le nostre tradizioni

Autore: Cristina Minerva


Articolo:
Iniziamo da questo numero un viaggio di ricordi nelle tradizioni ludiche dei nostri territori, ad accompagnarci in questo percorso la prof.ssa Cristina Minerva, componente della Direzione Nazionale UICI

Un tesoro di inestimabile valore si cela nei nostri ricordi legati ai giochi della nostra infanzia, che contengono un patrimonio di sensazioni cariche di irrinunciabile valore.
Le tradizioni ludiche dei nostri territori affondano le proprie radici nel ricco corredo creativo di chi ci ha preceduto e si è avvalorato ulteriormente grazie alla fantasia e all'intraprendenza personali.
I giochi della memoria tramandatici spesso dai nostri avi hanno determinato il primo rapportarci socialmente fin dalla più tenera infanzia, costituendo la base per il confronto con il bisogno di apprendere e di costituire il primo senso di appartenenza alla identità culturale di riferimento. Sarebbe molto utile poterci avviare a uno scambio delle esperienze ludiche tradizionali e scoprire quale importanza storica e culturale si può ritrovare nel bagaglio prezioso dei nostri ricordi.
"I giochi dei bambini e la ragione dei vecchi sono il frutto di due stagioni" osserva William Blake, poeta inglese di ispirazione romantica. Notiamo, infatti, che i bambini imparano a vivere giocando mentre nei vecchi l'essenza della vita è concentrata nella saggezza acquisita vivendo. Le due stagioni si succedono e l'una si compenetra nell'altra in modo rarefatto e distante ma, in entrambe, la vita acquista una connotazione speciale.
Raccogliendo gli usi e costumi legati alle tradizioni ludiche, le due funzioni si incontrano e si fondono in un unico prodotto: la ragione e la memoria dei vecchi veicolano, in modo nostalgico, i giochi di un tempo e il "fanciullo" che cova nell'intimo riaffiora. Sembra quasi che il cammino della vita ricominci e il gioco riacquista come è nella sua natura il valore di "metodo sicuro con il quale i bambini (di ogni tempo) riducono il mondo a proporzioni più maneggevoli e trovano il posto in esso" come afferma Phyllis Hostler, psicologo inglese dell'infanzia.
Per introdurre l'argomento mi sono avvalsa del confronto fra le generazioni più lontane, attraverso le testimonianze dei più anziani, che riferivano esperienze proprie e, a volte, addirittura dei propri padri.
Le narrazioni appaiono esaurienti; infatti, si sa che, fino al diciottesimo secolo, le parole gioco e divertimento, nella cultura occidentale, non suggerivano nulla di esclusivamente infantile. Esse facevano piuttosto parte di un vocabolario riferito agli adulti e le attività che vi si collegavano erano proprie di ogni età, un po' perché non vi era distinzione tra le attività dei piccoli e quelle dei grandi e un po' perché la nozione di bambini come entità separate, da trattare diversamente dagli adulti, non aveva grande diffusione.
Nonostante il mirabile documento di Bruegel il Vecchio, "Il gioco dei fanciulli", dove si possono ammirare circa ottanta bambini, che, divisi in gruppetti, si dilettano con i loro spassi favoriti, i giochi destinati unicamente ai piccoli sono un'evoluzione moderna del pensiero, che ha finalmente disgiunto la natura dell'infanzia dalla realtà dell'adulto.
Più avanti nel tempo, quando non vi fu più identità tra l'età infantile e quella matura, il gioco divenne una parte meno importante del mondo adulto e i giochi andarono sempre più a configurarsi come proprietà dei piccoli.
Solo la cultura e la letteratura hanno tardato ad abbinare convenientemente i due soggetti. Per quanto riguarda le nostre fonti, tutte le notizie raccolte partono dai lontani anni che hanno visto il XIX secolo scivolare nel XX, tra gli echi non troppo lontani di un'Italia ormai unita politicamente ma con un grande bagaglio di usanze locali che stentavano ad amalgamarsi le une alle altre, già tra paese e paese, tra rione e rione. Scopriamo questa realtà di "stradette" attraverso i documenti più emotivamente coinvolgenti: la voce di chi i fatti raccontati li ha vissuti personalmente.
I bambini dell'inizio del secolo scorso, con tanto bisogno di giocare all'aperto, nelle viuzze e fra le case che, legate come in un abbraccio, si affacciavano gelose e protettive sui vicoli angusti, così stretti che sembravano fatti apposta per il gioco dei bimbi stessi, erano comunemente definiti "fanciulli". Gli slarghi e le piazzette non erano meno ambiti "territori di conquista" e il vociare argentino ne forgiava l'acustica, dal pomeriggio alla sera, fin dopo il tramonto, quando le luci fioche accompagnavano gli ultimi schiamazzi dei fanciulli richiamati in casa dalle madri.
Le strade e i viottoli, non asfaltati, ospitavano rari passanti e nella via di principale percorrenza transitava raramente qualche mezzo di trasporto.
I bambini potevano giocare sul selciato, con i piedini scalzi, liberi di scorrazzare senza la costrizione degli zoccoli indossati, peraltro, quando si doveva andare a scuola.
La signora Luigia, che oggi ha 101 anni, è lucida e fresca come una ragazzina, quando ricorda il suo passato. Sul viso intenso ma ancora liscio e con lievi rughe appena accennate si evidenzia l'emozione dei ricordi mentre cerca di riscoprirsi, ancora una volta, felice e monella, con in mano la pietra liscia e ben forgiata che le permetterà di conquistare tutte le caselle del pàmpano, che lei chiamava, con i compagni di allora, u zeugo da ciappa (il gioco della pietra).
Il tempo dei giochi trascorre veloce nel suo racconto limpido e chiaro: solleva le mani bianche e particolarmente delicate nel gesto quando parla della sua bambola: una pupattola piccola, graziosa e per lei molto cara, regalo dei suoi primi anni.
Presto, ancora piccola, agli inizi del Novecento, Luigia S. fu avviata al ricamo e al cucito e così, con il nuovo impegno, per lei furono gradualmente limitate le possibilità di gioco, che riuscivano ad occupare solo i ritagli di tempo libero.
Rimangono rari frammenti nei suoi ricordi del semplice divertimento di allora, ma le parole acquistano quell'intensità propria dell'indulgenza e dell'affetto riservati alla incosciente età della prima fanciullezza.
Il Pàmpano ricordato dalla dolce signora Luigia è, in effetti, uno dei giochi più menzionati e più ricorrenti nei racconti dei nostri vecchi. È proprio come se questo gioco fosse stato ideato e quindi sorto, espresso, radicato solo nella nostra cultura locale, ma sappiamo bene che non è così: questo divertimento è conosciuto e narrato un po' ovunque, in ogni luogo e in molte epoche. Se ne trovano tracce nella lontana Russia, lo nomina perfino Soljenizin in un suo scritto, chiamandolo mir (proprio come la famosa e non sempre fortunata stazione spaziale) che significa mondo; in Inghilterra, dove prende il nome di scotch hop; in Francia, dove il nome diviene marelle ronde; in Spagna e nelle sue varianti regionali italiane che lo definiscono: bruso in Friuli, cruccino in gran parte della Toscana, il gioco del mondo a Firenze, campanon in qualche zona del Veneto, el caselo a Venezia, disco, lasagna o ciocia in alcune località del Piemonte, cipana a Brescia, campanlone a Pesaro, pampana a Sassari, il portone a Trieste, la summane a Foggia, capu de mortu a Lecce, a nnicchia oe palasu a Palermo, e così via.
Questo gioco, con regole simili in ogni località, deriva con tutta probabilità dal tardo latino, quando lo si conosceva come septimana, femminile sostantivato di septimanus, cioè "che raggiunge il numero di sette", legato in qualche modo al greco hebdomàs, che ha un analogo significato.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un gioco che affonda le proprie radici nei tempi più lontani e che ha, molto verosimilmente, un'origine rituale.
Molti studiosi sostengono che il numero sette, lo stesso degli scomparti che formano lo schema tracciato sul terreno, possa avere un significato sacrale (ricordiamoci i sette giorni della creazione, i sette bracci del candelabro ebraico). Nondimeno nella versione che prevede otto o dodici caselle è possibile un rapporto simbolico con i numeri.
La pietra piatta, utilizzata per l'appropriazione delle caselle tracciate sul terreno, dovrebbe, a sua volta, trarre origine dalla rappresentazione del disco del sole che, giunto all'ultimo settore, vale a dire all'ultimo segno dello zodiaco, termina il proprio corso. Perfino i segni sul terreno, rettangoli o quadrati ordinati e sovrapposti, abbinati a due a due, terminanti in una mezza luna, dovrebbero riferirsi a antiche pratiche astrologiche e dottrine secondo le quali l'anima e il corpo transitano da uno stato all'altro.
Naturalmente non é possibile addentrarsi in disquisizioni, che si allontanano dalla storicità documentata, ma non possiamo smentire un innegabile fascino interpretativo di queste analisi.
Narra Anna Rizzi, scrittrice piacentina, in Vecchio Cortile: "Tra i giochi preferiti, c'era il gioco detto della settimana, che consisteva nel tracciare con il gesso delle linee sul marciapiede, che formavano delle caselle numerate da uno a sette e nelle quali bisognava entrare e uscire spingendo avanti col piede un sasso piatto, opportunamente scelto".
Racconta Beatrice Solinas Donghi nelle pagine di L'uomo fedele: "Uscendo dalla lezione di taglio, delle ragazze più alte di me domandavano di fermarmi a giocare al pàmpano, nella polvere della strada, e io ero molto brava e facevo pan e salam ad occhi chiusi con un sasso bilanciato sulla testa".
Ricorda Camilla Salvago Raggi, nella presentazione a un libro dell'amica Ivana Ferrando: "Di sera, in quell'ora magica dopo il tramonto in cui il cielo sfuma dall'azzurro al violetto, si accende una prima stella qui, una prima luce là, nelle case si fa buio, ma fuori ci si vede ancora, ci si vede, almeno, quel tanto da poter giocare, da poter distinguere le righe del pàmpano. In equilibrio su una gamba sola, le mani sui fianchi e la zazzeretta o le trecce che sbattevano ad ogni salto, la bambina spingeva saltellando la pietra piatta di casella in casella".
Il gioco fin qui esposto trova in letteratura numerosi riferimenti, che lo descrivono con una vena di nostalgica serenità e consentono, anche a chi non lo ha mai praticato, perché nato dopo gli anni Sessanta, quando iniziava il suo declino, una conoscenza e una gioiosa rivalutazione della tradizione.
Che cosa ha dunque di nostrano e familiare il gioco del diffusissimo pàmpano?
Probabilmente la novità locale era rappresentata dalle frasi, dalle consuetudini e dagli incoraggiamenti, solitamente dialettali, che accompagnavano il suo svolgimento.
La pietra poi, che doveva essere particolarmente liscia e piatta, proveniva spesso dai muretti a secco dove qualche lastra di ardesia friabile si lasciava intaccare per fornire lo strumento principale per il successo dei lanci; più raramente proveniva dalla spiaggia, dove il mare, complice e compagno, depositava sulla riva i sassi più fortunati, quelli, cioè, che svolgevano bene il loro compito e atterravano precisi proprio nel settore dove venivano lanciati, senza rotolare né sfiorare le linee delle caselle.
Il pàmpano ligure, come in altre caratterizzazioni territoriali, era un gioco tranquillo, solitamente riservato alle femmine e irriso dai fanciulli, che lo ritenevano poco adatto alla loro pretesa mascolinità. Succedeva però molto spesso che anche i ragazzi giocassero al pàmpano, nei momenti in cui l'aggregazione di compagni non offriva nessun altro divertimento, ma soprattutto quando le ragazze magnanimamente lo permettevano, poiché i tracciati erano di proprietà dei gruppi e per usarli ci voleva il permesso di chi li aveva disegnati.
La traccia sul suolo, che era eseguita con una porzioncina di mattonella rossa, con una pietra friabile o con il gesso (strumento molto ambito e considerato una vera ricchezza), era alla fine considerato come un possesso e i maschi erano invitati a partecipare solo quando cominciava ad esserci una forte simpatia fra i giocatori. Si potrebbe considerare l'invito al gioco quasi un timido approccio e, il più delle volte, l'iniziativa partiva dalle femmine che, generalmente, in queste situazioni avevano maggiore decisione.
Nelle piazze, o dovunque il terreno lo consentisse, si vedevano le linee del pàmpano: segni vecchi e nuovi, ripassati più volte, che testimoniavano, se ce ne fosse stato bisogno, il grande uso ludico delle vie e degli spazi urbani, allora non ancora invasi dal traffico automobilistico.
Il disegno sul terreno istoriava in modo certamente poetico le pavimentazioni in ogni angolo della città e le decorazioni, destinate a scolorirsi alla prima pioggia, avevano un gradevole impatto sugli adulti; ora, i graffiti indelebili, che inondano di scritte i muri dei centri abitati, non riescono in alcun modo a comunicare qualcosa di simile.
Il gioco originale prevedeva sei caselle affiancate a due a due e una lunetta che chiudeva in cima gli ultimi due riquadri. Tracciati ne esistevano anche con un numero maggiore di settori e ogni gruppo di concorrenti si ingegnava ad inventare possibili variazioni.
Dopo la conta, che permetteva di individuare l'ordine di ingresso dei giocatori, la prima partecipante gettava la pietra nella casella n. 1; poi, saltando su una gamba sola, entrava nelle caselle seguendo l'ordine numerico e raccoglieva la propria pietra al momento del passaggio o, in versioni differenti, spingeva col piede la propria pietra negli spazi numerati, in successione ordinata. Lo stesso procedimento avveniva per tutti gli altri numeri.
Le difficoltà erano rappresentate dal lancio, che doveva essere preciso e dalla capacità di rimanere per molto tempo in equilibrio su una gamba sola, facendo i movimenti necessari per proseguire.
Nella mezzaluna terminale, a semicerchio, si potevano appoggiare entrambi i piedi e c'era un momento di riposo.
Quando tutto il tragitto era stato effettuato, si cominciavano altri percorsi con sempre maggiori ostacoli: il sassetto era tenuto, durante il salto, sempre a piede zoppo, sia nell' incavo dell'altro ginocchio flesso, con la gamba piegata, sia su di un dito solo, sia su di un piede, questa volta senza saltare (figura questa chiamata dell'uovo fritto). Chi sbagliava passava il turno.
Alla fine del gioco vi era il momento del tragitto a occhi chiusi, che consisteva nell'attraversare tutte le caselle con la pietra sulla fronte. Le giocatrici dovevano passare ad occhi chiusi da un settore all'altro e, prima di posare il piede, chiedevano: "Pane?". Se il passo era preciso e non si calpestavano le righe, le compagne di gioco rispondevano: "Salame", altrimenti le urla e le risa annunciavano l'errore.
Alla conclusione del percorso cieco c'era il "salto in cielo", che consisteva nel lancio della pietra voltando le spalle al tracciato. La casella su cui atterrava la pietra diventava proprietà della stessa giocatrice e le avversarie, successivamente, non avrebbero più potuto calpestare quello spazio, ma oltrepassarlo scavalcandolo.
Sovente non si riusciva ad arrivare alla conclusione e quindi alla conquista di tutte le caselle. Era comunque una grande soddisfazione per chi, tornando a casa di sera, poteva portare dentro di sé la gioia di essere proprietaria di una parte dello schema di gioco che, fino al prossimo: "Giochiamo al Pàmpano?" e per tutta la durata dell'attesa, di diritto, le apparteneva.



Torna alla pagina iniziale della consultazione delle riviste

Oppure effettua una ricerca per:


Scelta Rapida