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Kaleîdos

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Numero 6 del 2021

Titolo: Francesca va alla guerra

Autore: Guia Soncini


Articolo:
(da «F» n. 9 del 2021)
Mannocchi, professione reporter, pubblica un libro diverso: niente Medio Oriente, stavolta la battaglia è la sua sclerosi multipla. Una giornalista che la conosce racconta cosa succede quando si scrive «io». E perché vogliamo tutti spiare dal buco della serratura
«Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male». Quando Roth è morto, tre anni fa, aveva pubblicato decine di libri, c'era un ampio repertorio di parole tra le quali scegliere per ricordarlo, eppure tutti - letterati e lettori, gente sui social e accademici - citavano quelle due righe di «Pastorale americana». Poiché Freud non era un cretino, c'è una ragione se tutte citiamo una frase, ed è che quella frase ci dice quello che non siamo: consapevoli di non sapere nulla degli altri.
Come tutte, sono convinta di sapere tantissimo di Francesca Mannocchi. Di saperla più lunga di quelle che mi parlano del suo rigore giornalistico, della sua serietà, dei suoi reportage dal Sud del mondo, del suo essere severa e senza fronzoli. Che ne sapete, voi, sbuffo silenziosamente. Come tutti quelli che non capiscono la gente, sono convinta d'essere l'unica ad averla capita. A sapere che, quando ti dicono che hai una malattia non mortale ma incurabile, sotto controllo ma degenerativa, e un giorno potresti svegliarti cieca, o paralizzata, se solo quelle macchie bianche che appaiono nella risonanza si spostano sui punti sbagliati, in quel momento nel tuo raziocinio scatta qualcosa.
Parliamo di manicure
Nella vita, Mannocchi non parla mai della sua malattia, scoperta quattro anni fa con un figlio nato da poco. Un giorno le ho detto qualcosa a proposito di «The West Wing», la serie tv in cui il presidente degli Stati Uniti ha la sclerosi multipla e dalla quale ho imparato quel che so della degenerazione neurologica che accomuna Francesca a un personaggio di fantasia, e lei mi ha detto che non l'aveva mai vista. Se un personaggio di fantasia ha il tuo stesso male e non vai a vedere come è trattata la questione, è perché manchi di curiosità o perché hai deciso di rimuovere il problema?
Poiché, come tutti, non ho imparato niente da Roth, mi sono convinta di conoscere il meccanismo psicologico che la governa: ha deciso di non pensarci. È per questo che le conversazioni con lei sembrano pettegolezzi nei bagni del liceo, mi dico, convinta di saperla più lunga di chi crede che, a tavola, Mannocchi parli di profughi. È per questo che la sua principale preoccupazione, nell'anno della pandemia, era la riapertura della manicure: cerca di distrarsi, di non pensarci, di scordarsi che domani magari si sveglia invalida (ma con le unghie a posto). Lei mi parla di tizia, che nessuno lo sa ma sta con tizio; e io penso: è peggio una malattia della quale sai che morirai, o una che può sottrarti un po' alla volta pezzi d'indipendenza? Non ho capito Francesca ma ho capito me: sono meno brava di lei a distrarmi.
Il conflitto dentro
Il messaggio che Mannocchi mi ha mandato più spesso, mentre scriveva «Bianco è il colore del danno», era «Non trovo il tono». Non le ho mai detto la verità: che il tono ce l'aveva già, mica era un libro diverso, era come gli altri suoi, un libro di guerra, solo che stavolta era parte del conflitto invece che un'osservatrice distaccata. Le ho detto sempre e solo: lo troverai. L'ha trovato. Ha fatto quella cosa che fanno le scrittrici: dire «io». Da lì, Ligabue direbbe che ci pensa la vita. Roth invece direbbe che devi smontare e rimontare le frasi per mesi: ha ragione lui, come aveva ragione Nanni Moretti quando diceva che uno non è spontaneo a casa sua, figuriamoci se lo è davanti alla macchina da presa. Appena scrivi «io», «io» diventa un altro. È oggetto di studio come fotografare il cappuccino per Instagram, figuriamoci se non è faticoso e oggetto di continui ripensamenti il gesto di raccontare a un pubblico di sconosciuti cosa ti sta devastando la vita, di raccontare in un libro che un giorno tuo figlio leggerà il tuo sospetto che sia stato lui a farti ammalare.
Illudersi di capire la gente
Questo memoir di maternità e lessico famigliare, di gorghi del femminile (il rapporto col proprio aspetto) e confini scivolosi che (non) dividono l'essere asciutta dall'essere spietata, questa ricognizione d'una vita sarà inevitabilmente ridotta a libro della malattia.
Sappiamo tutte - quelle che fanno libri per mestiere e quelle che li fanno per hobby, quelle che li leggono e quelle che li scansano - una verità che in genere non diciamo: i social hanno deformato il nostro sguardo di lettrici. Vogliamo solo simulazioni di nudità. Vogliamo che i libri somiglino ai reality, che le autrici ci dicano «Sono sempre me stessa». Vogliamo spiare dal buco della serratura, e illuderci di capire la gente. Quindi, quando hai sempre fatto la cronista rigorosa, di quelle che non si fanno inquadrare perché al centro c'è la storia e non loro, di quelle che raccontano in terza persona, il giorno in cui decidi di dire «io» non puoi che essere oggetto di pettegolezzi.
La «furbizia» di ammalarsi
Il giorno di Natale, Mannocchi m'ha telefonato preoccupatissima. Un comune amico aveva letto il libro in anteprima e aveva ritenuto di fare lo spiritoso: «Ah, quindi hai deciso di comprarti casa». Hai deciso di prendere la parte più dolente della tua vita e farne un bestseller. Di finire negli scaffali dei libri che corriamo a comprare per sentirci migliori; quelli in cui vengono narrate malattie, dipendenze, disgrazie assortite. Sei stata furba, ad ammalarti.
Francesca non mi ha fatto una domanda che fa nel libro, «È lo sguardo, dunque, la gabbia?», ma era chiaro che stava pensando a quello. Al nuovo cliché con cui l'avrebbero capita male. Lo sapeva già. L'aveva scritto: «Voi mi compatite, allora io posso diventare un soggetto da compatire».
Guia Soncini



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