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Kaleîdos

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Numero 1 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Prima la violenza in casa, poi la guerra. E io reagisco
Storia di Zdenka
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
«Dove sei stata? Dimmelo o ti faccio vedere io» urla papà minaccioso con la mamma. Ho 4 o 5 anni ed è il primo di dolorosi ricordi che ho chiuso dentro di me considerandoli parte della vita, le cose normali che succedono. Abitiamo nel territorio dell'ex Jugoslavia, lui è militare e lei lavora nella Polizia.
Da quel giorno conosco la violenza che a ondate entra nella mia vita. È la gelosia a scatenare le peggiori scenate di mio padre, ma alla fine anche il sale che manca sulla tavola diventa un motivo per sfogare contro di noi rabbia e frustrazione.
La paura entra in me come un rumore di fondo. Vivo temendo ogni prossima reazione d'insoddisfazione. Tra un episodio e l'altro, la voglia e la necessità di credere che non succederà più si mischiano all'ansia, all'angoscia e all'attesa: quando accadrà di nuovo? Anche nella mia famiglia allargata assisto a episodi di aggressività. Gli uomini comandano, impongono e decidono. Aggiungiamo che un mio partner di ballo mi ha preso a schiaffi per un secondo posto in una gara di rock'n 'roll, che ho subito le molestie di un esibizionista in ascensore e la guerra dei Balcani nel 91.
La verità all'improvviso
«Zdenka, ti devo far leggere questa brochure» mi dice Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus. Voglio aprire un'attività tutta mia e seguo un corso sull'impresa rivolto alle donne realizzato da questa fondazione. Ma facciamo un passo indietro, se no vi perdete. Dopo essermi laureata come maestra elementare, nei primi anni della guerra nei Balcani - che ha contribuito a destabilizzare la mia complessa situazione famigliare - avrei voluto studiare Lingue alla Sapienza, motivata anche dal fatto di aver conosciuto il mio futuro marito, italiano. Desideravo costruire la mia vita, la mia famiglia creando un approdo sicuro per mia madre e mio fratello se ce ne fosse stato bisogno.
Ma un mantello di pensieri, preoccupazioni e paure di cui non comprendevo i motivi faceva ombra a ogni mia decisione. All'apparenza era tutto nella normalità, ma ogni passo era ostacolato. È andata così per più di vent'anni: ogni attività che affrontavo non dava il risultato sperato. Tutto aveva un sapore indefinito condito di paure e sensi d'inadeguatezza. Nessuno spazio mi apparteneva. Anche quando ho avuto l'occasione di mettermi in proprio, quando gli occhi e l'anima s'illuminavano di certezze, il mantello non mi abbandonava. A ogni mia valutazione arretravo. Ci sono sempre problemi reali, crisi economiche in atto e giustificazioni oggettive. Ma stavo per scoprire che c'era anche un limite interno a trattenermi nel limbo. Simona di Pangea lo aveva intuito, lo sapeva.
In treno shock e lacrime
Il regionale per Cerveteri lascia la stazione di Roma sotto la pioggia.
«Ora me la leggo» penso, prendendo dalla borsa la brochure. Sulla copertina un disegno infantile: madre e figlio, abbracciati, guardano sorridendo un grande sole in un cielo blu ad acquerello. S'intitola «Una barriera per fermare l'effetto domino della violenza sui minori».
È il capitolo due a sconvolgermi. Descrive i sintomi di chi ha assistito in giovane età alla violenza famigliare. «Nell'immediato il minore manifesta disagio, stress, depressione, comportamenti «adultizzati», difficoltà scolastiche e di concentrazione, ridotte capacità empatiche, bassa autostima e svalutazione di sé». Un fulmine mi squarcia. Riconosco la mia angoscia infantile che credevo «normale» e di cui non mi sono mai liberata. Lacrime sottili iniziano a rigarmi le guance. Procedo con la lettura. «Sul lungo periodo aumenta il rischio di emulare l'esempio aggressivo, dominante che si è appreso in famiglia, ossia la tendenza a sviluppare comportamenti violenti o adottare comportamenti remissivi».
Mi torna alla mente un episodio terribile. Quando a 10 o 11 anni ho picchiato con rabbia mio fratello più piccolo perché aveva bagnato il pannolino che gli era stato appena cambiato. Alla vista dei lividi è intervenuto mio padre. Non mi ha sgridato, né minacciato ma guardandomi dritta negli occhi ha detto: «Non farlo mai più».
Così è andata. La paura e la vergogna per la forza con cui lo avevo sculacciato hanno contribuito a farmi diventare una persona remissiva, quasi trasparente, poco abile a farmi valere, piena di potenziale inespresso e di conseguenza depressa.
Inizio a chiedere aiuto
Arrivata in Italia ho avuto attacchi di panico in diverse occasioni che sono stati trattati con dei tranquillanti: «Lei è normale, prenda questo se le ricapita» mi aveva detto un medico.
È Simona di Pangea a suggerirmi di elaborare i temi del passato che mi bloccano. Mi rivolgo al Centro di salute mentale e al gruppo di auto-mutuo-aiuto dell'Associazione Insieme con Te. Riesco ad aprirmi e la mia storia di bambina, finalmente, esce da dove si era incastrata per anni. L'imbarazzo, il disagio e la paura vanno di pari passo con il pensiero di non sapere chi sono veramente e cosa voglio perché per troppo tempo vitalità e desideri sono stati spenti dentro di me. Ma la volontà di scoprire me stessa e farmi valere è ancora più forte. Due anni fa, con mio marito e un'amica, apriamo un'associazione con cui ci impegniamo a promuovere il territorio e a divulgare la cultura della non violenza. Oggi fa parte di Reama, rete di empowerment e auto-mutuo-aiuto proposta da Pangea. Siamo in sette. Sosteniamo altre donne che hanno subito violenza e le indirizziamo, caso per caso, verso i servizi della rete: l'avvocato, lo psicoterapeuta, la casa rifugio. Se hanno figli, c'è il progetto Piccoli Ospiti che accoglie mamme e bambini in luoghi sicuri e li segue in percorsi di recupero del trauma e di genitorialità positiva: proprio quello di cui avrei avuto bisogno da piccola.
Sto cambiando molto
Il mio percorso è un bene prima di tutto per me e poi per la mia famiglia, in particolare per mia figlia. Il mio impegno per migliorare e non far ricadere su di lei il mio disagio è un buon esempio. Un po' più complesso per mio marito, che si trova di fronte a una persona diversa. Non mi ha mai torto un capello, mi ha sempre sostenuto e io mi sento come se avessi barato in tanti anni per non aver mostrato la vera me stessa. Come potevo farlo? Non la conoscevo nemmeno io. Nel frattempo mio padre è morto e con mia madre affrontiamo delicatamente il tema del passato. Non so dove mi porterà il mio viaggio interiore, ma mi rende più libera. È un'evoluzione culturale lenta e complessa. La violenza contro le donne e bambini fa parte della società da un milione di anni, ma se ne parla soltanto dagli anni Novanta. La strada è lunga ma vale la pena di metterci in cammino. Per chi l'ha subita e per evitare l'effetto domino sulla società.
Zdenka Maric, 48 anni, originaria dell'ex Jugoslavia, vive a Cerveteri (Roma), con il marito e la figlia. Presiede l'Associazione Cuore Errante (su Facebook) che promuove il territorio e contrasta la violenza.



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