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Kaleîdos

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Numero 23 del 2020

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Venduta come schiava del sesso
Storia di Jessica
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
Lavoravo dalle cinque del mattino fino alle tre del pomeriggio. Poi dormivo qualche ora e ricominciavo.
Per tutta la notte ero di nuovo in strada. Nel napoletano una prestazione vale 10 euro, almeno per le donne che hanno la pelle nera, come la mia. E io dovevo dare a maman 200 euro al giorno: 100 per il lavoro del mattino e 100 per quello notturno.
Ogni tanto un cliente mi menava, o non mi pagava e scappava dopo il «servizio». Oppure ero io a scappare, quando vedevo la volante della polizia.
È questa la vita delle ragazze che fanno la vita.
Com'è iniziata? Sono nata a Benin City, in Nigeria, dove ancora vivono i miei genitori, i miei quattro fratelli e le mie quattro sorelle. Sono arrivata in Italia nel 2008, dopo sei mesi di viaggio attraverso il Senegal e la Spagna. Avevo solo 20 anni, ma ne dimostravo qualcuno di meno.
Per questo sulle carte d'ingresso, tutte false, ho varcato i confini come figlia del mio «trasportatore». Diciamo che il mio nome è Jessica, o almeno lo è diventato in Italia. E invece di iniziare a lavorare come parrucchiera, come mi avevano promesso, sono stata buttata per strada a fare il mestiere.
Un mercato di esseri umani
La chiamano tratta. È un mercato di esseri umani che rende milioni di euro. Un mercato di schiave del sesso. Prima, io me ne stavo a Benin City e facevo treccine sulle teste delle mie clienti. Un giorno una donna mi ha detto: «Sei brava con i capelli, ci sai fare. Se tu potessi raggiungere l'Europa, magari l'Italia, la smetteresti di guadagnare una miseria. Faresti una fortuna. Vai da maman May, ci pensa lei a pagarti il biglietto aereo. È tutto facile con lei».
Così sono andata a trovare quella donna, una cinquantenne che abita in una casa molto grande e bella. Mi ha detto solo: «Non ci pensare nemmeno. Fallo e basta. Vai, sbrigo io la parte burocratica. Poi, la prima volta che tornerai, mi darai 50 mila naira».
Ho pensato che in Italia avrei impiegato poco tempo per guadagnare poco più di 200 euro, la cifra che lei mi stava chiedendo nella nostra moneta.
In realtà mi stava ingannando: voleva 50 mila euro. E il rito voodoo che mi ha imposto mi ha legata a lei: ho bevuto il liquido che mi ha portato il «doctor», come si chiamano gli officianti di questa religione, e bevendolo ho promesso obbedienza, rispetto, silenzio, pagamento del debito.
Il voodoo fa paura: temevo ritorsioni, ero terrorizzata all'idea che capitasse qualcosa di spaventoso alla mia famiglia, anche quando ormai ero in Italia e la mia vita veniva capovolta. Dentro mi sentivo persa, sporca, in balia di qualcosa di più grande e più forte che mi stava trascinando giù, verso il baratro, verso quella terra di nessuno in cui non ti senti più una donna e non ti senti più nemmeno un essere umano. Ma andiamo con ordine.
In Senegal per sei mesi
Stavo in una casa con tante donne che come me volevano raggiungere l'Europa, ognuna con un progetto. Chi fare la commessa, chi diventare sarta, oppure domestica. Qualcuna penso sapesse a cosa stavamo andando incontro. Ma non io. Poi siamo arrivate in Spagna, per una sosta di un solo giorno, e infine a Napoli, dove maman Julet, una nigeriana tra i 30 e i 40 anni, mi ha consegnato un paio di stivali altissimi, una minigonna di pelle bianca e un reggiseno, dicendomi: «Vestiti».
«Dov'è il negozio del parrucchiere?» ho chiesto.
«Lascia perdere. Se non porti i soldi a casa ti meno».
Un uomo mi ha portata sotto i piloni di una strada, vicino a un cavalcavia dove c'era la petit madame, la donna incaricata di insegnare il lavoro a quelle come me, appena arrivate. Quanto stare con il cliente. Come scappare con i tacchi alti.
Come ci si comporta con la polizia.
Ho pianto, pianto, pianto. Dentro mi sentivo tanto male. Ma la paura che il fidanzato di maman mi menasse era più forte di tutto.
Quando tornavo a casa dopo una notte magra, quell'uomo mi massacrava. Diceva che li tenevo io, quei maledetti soldi. Ancora oggi, a distanza di anni, un occhio è lesionato per i pugni che ho ricevuto.
Il debito non scendeva mai
Ho fatto la prostituta quasi tre anni, prima a Napoli e poi a Caserta.
Tre anni della mia vita. Una parte di me diceva che sarei riuscita, poco alla volta, a ripagare il debito, e ci volevo credere, ma un'altra parte, quella che era rimasta sana e lucida, sapeva che non era possibile. Come potevo mettere insieme 50 mila euro?
Capivo che non ne sarei mai uscita se avessi accettato di rimanere sotto il giogo di maman.
Così un giorno ho preso un treno per Milano, ho spento il cellulare e ho buttato via la scheda, se no quella mi ribeccava subito. Appena arrivata alla stazione Centrale ho cercato Tracy, una ragazza nigeriana che si era levata dalla strada.
È stata lei a dirmi cosa fare: «Vai alla Caritas. Racconta tutto e ti aiuteranno, come hanno fatto con me». È andata così.
Mi sono rivolta alle volontarie e mi hanno trovato subito un posto in una casa d'accoglienza per donne vittime della tratta. Lì son stata qualche mese, ho parlato molto con le donne della Caritas, ricostruendo tutta la mia vita da quando ho lasciato la Nigeria.
Poi, nel 2011, un avvocato ha raccolto la mia denuncia contro le persone che mi hanno sfruttata. E sono tornata a Napoli e a Caserta, dove mi ero venduta.
La mia libertà
Il lato comico di questa tragedia è che sono andata a identificare i miei sfruttatori dentro una volante blu e ai poliziotti dicevo: «Non ti ricordi di me? Stavo tutta la notte sotto quel lampione. Ero quella che scappava quando voi arrivavate».
Quell'episodio, protetta dai «pulotti», ha segnato la fine della mia discesa all'inferno. Credo che quel giorno sia davvero finita.
Fatto il mio dovere civico, sono tornata nuovamente a Milano e ho iniziato il mio percorso, sempre grazie alla Caritas. In un anno ho preso la licenza media, quello successivo ho fatto un tirocinio. Non guadagnavo nulla, ma sapevo che era l'unico modo per tornare libera. Se avessi sgarrato sarei stata espulsa, avrei perso ogni chance. È la legge.
Ma io ero certa che quella denuncia e l'accoglienza che mi è stata data mi avrebbero ridato la vita. Ed è andata così.
Oggi ho il permesso di soggiorno, lavoro in una mensa e ho anche trovato l'amore. Nelson è un mio connazionale e, scherzando, mi dice: «Tu ormai pensi come un'italiana. Vuoi solo lavorare, non ti piace stare a casa, vuoi avere un solo bambino e non cinque come le africane. Sei sicura di essere nigeriana?».
Jessica, nome di fantasia, 32 anni; originaria di Benin City (Nigeria), vive a Milano. È in Italia da vent'anni.



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