Numero 19 del 2020
Titolo: Combatto la criminalità con la divisa dell'Arma
Autore: Roberta Damiata
Articolo:
(da «F» n. 39 del 2020)
Non appena i carabinieri si aprono al mondo femminile, Melissa fa il concorso. E dopo un paio d'anni comanda già una compagnia di 30 uomini. «Essere donna aiuta a controllare senza farsi notare e ad ascoltare chi ha più paura». E oggi è protagonista della docuserie Avamposti - Dispacci dal confine
«Mi sa che questi jeans sono da accorciare. Dove posso provarli?», chiedo al proprietario di un negozio all'interno del mercato delle pulci di Napoli. Ho 30 anni, è il 2008, uno dei miei primi incarichi, sono in abiti civili e cerco conferme alla denuncia di due ragazze che mi hanno raccontato di aver subito molestie proprio qui. Pochi minuti dopo, nel camerino, arriva un ragazzo che con la scusa di prendermi le misure mi si struscia addosso e mi palpa da ogni lato. Mi sento anch'io una vittima come tutte le donne che ci sono passate prima di me. E lo arresto in flagranza di reato.
Carabiniere Melissa
Me lo hanno chiesto tante volte perché ho scelto questo mestiere. Non ho parenti nell'Arma, ma un profondo rispetto delle regole e delle istituzioni e indossare la divisa rappresenta il modo migliore di incarnare questi valori. Fino al 2000 questo mondo era precluso alle donne e mi ero iscritta a Medicina. Non appena si è aperto un varco, non ci ho pensato due volte. «Sei proprio sicura, Melissa?», mi hanno chiesto i miei genitori che ormai mi immaginavano medico. Nessun dubbio: ho fatto il concorso e al secondo tentativo sono entrata nell'Arma.
Donna che comanda
Dopo i primi due anni di esperienza nell'area «addestrati», sono arrivata a Napoli con l'incoscienza dei bambini e quell'atteggiamento che mi ha aiutato ad affrontare tutto con un pizzico di sfida.
Ero una delle prime donne in divisa e mi sono trovata a guidare una trentina di persone del nucleo operativo. Uomini maturi, padri di famiglia e io una ragazzina con poca esperienza sul campo. «Ricordati che siete uguali ma tu sei il comandante». Me lo sono dovuta dire tante volte mentre mi relazionavo con umiltà e fermezza insieme. Se nella gestione del potere essere donna ha presentato qualche difficoltà, la presenza femminile nelle operazioni ci ha aiutato a controllare e pedinare senza destare sospetti.
Spesso con un collega ci siamo finti una coppietta per tenere sotto controllo piazze di spaccio e ricercati.
È terribile e scioccante vedere che vengono usati bambini per spostare la droga. Per questo stringere le manette ai polsi ai capoclan è una vittoria per la nostra squadra e ci riempie di orgoglio.
Nell'avamposto di Frascati
Dal capoluogo campano, che porto nel cuore perché è lì che ho conosciuto il mio compagno e collega, Alessandro, sono stata a Ischia, poi a Frascati nel 2014, e ho testato sulla mia pelle cosa voglia dire lavorare in un «avamposto», ovvero una stazione al confine tra la società civile e il margine estremo della disgregazione sociale.
Operare in questi contesti significa affrontare ogni giorno le vicende di tanti esclusi, i traffici delle narcomafie e gli illeciti di piccoli e grandi criminali. Vuol dire che per molte persone la nostra divisa diventa un appiglio per la vita. Ed è quello che ripaga dalla fatica di giorni e notti senza soluzioni di continuità e dalla violenza alla quale assisti e che mandi giù.
Una boccata d'ossigeno: la tv
Ho fatto un'esperienza divertente: sono stata l'istruttrice sul campo dell'attrice Maria Chiara Giannetta che sul piccolo schermo interpretava il capitano Anna Olivieri in Don Matteo. Siamo partite dalle basi, quello che sembra superfluo spiegare a chi porta la divisa tutti i giorni, come camminare, indossare il berretto, poggiarlo sulla scrivania, entrare in macchina. La tv è tornata nuovamente nella mia vita chiedendomi di partecipare alla serie Avamposti, una docuserie in onda sul Nove. Mi ha fatto piacere perché raccontare la nostra quotidianità può avvicinare le persone che hanno bisogno di aiuto, ma temono la divisa perché non sanno bene chi siamo e come ci muoviamo.
Mamma in divisa
Diventare mamma di Filippo, nel marzo 2019, ha cambiato il mio rapporto con la paura. L'ho avuto che avevo 42 anni. Era il mio momento. Prima, se mi fossi fermata, mi sarei sentita in difetto con me stessa e con il mio senso del dovere. Oggi, sono tante le situazioni che mantengono viva la mia vocazione, anche se la violenza che affrontiamo ogni giorno è davvero indigesta. Ricordo una donna che ci aveva chiamati per denunciare le botte del compagno ubriaco. «Signora, la prego, ci faccia entrare. Altrimenti come possiamo aiutarla?», le dicevo davanti all'ingresso di casa, dove si era asserragliata in preda al terrore.
La trattativa per convincerla è durata 40 minuti, poi, quando ha spalancato, davanti ai nostri occhi si è presentato uno scenario dell'orrore. La porta della camera da letto sfondata a calci e lei, picchiata selvaggiamente, era ricoperta di ematomi: sulla schiena, sulla pancia, sulle gambe, sulle braccia e sul seno. Una scena indescrivibile. So che sentire dall'altra parte una voce femminile l'ha rassicurata.
Capitava spesso, soprattutto i primi tempi in cui non eravamo molte in campo, che venissero i miei collaboratori dicendomi: «Comandante, venga lei, c'è una donna, magari con lei si apre». Non dimentico neanche i grazie di quelle mamme con i figli tossicodipendenti che nella loro disperazione si mettevano nelle nostre mani. Donne e ragazzini ancora oggi pagano più degli altri.
La sensazione di fare bene
Attualmente vivo e lavoro a Roma dove sono diventata maggiore nell'ufficio operazioni del Comando generale. Un lavoro di approfondimento professionale, più tecnico, meno sul campo, rispetto a prima. Le sensazioni più belle che porterò sempre con me sono quelle di profonda soddisfazione quando, al termine di un'operazione, siamo riusciti a quadrare il cerchio, a risolvere un problema a una famiglia o ad aiutare qualcuno.
Se chiudo gli occhi mi vedo quando rientro a casa la sera e lascio tutto fuori ma dentro ho una sensazione di benessere e serenità. Quella che mi regala l'aver fatto il mio dovere nel migliore dei modi.
Roberta Damiata