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Kaleîdos

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Numero 16 del 2020

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Travolta dai debiti, sono finita a dormire per strada - Storia di Gemma
Avrei mai immaginato di diventare una clochard? E chi può arrivare a tanto? Un giorno sei in cucina, a preparare la colazione ai figli. Sei in camera, a scegliere con loro un vestito, a rifare i letti. Poi a stendere la biancheria in balcone. Giri la chiave nella toppa, un gesto che si fa meccanicamente, senza rendersi conto del privilegio di entrare in quattro mura, modeste, ma tue. Com'è possibile fare tutto questo e poi perdere tutto? Non riavere mai più la spontaneità di quei momenti. Potevo immaginarlo? No. Nemmeno nei miei peggiori incubi. Avevo altri sogni da ragazza, come li hanno tutti. Poi li ho persi, alcuni perfino dimenticati o accantonati per fare spazio a progetti concreti. E tutto quello che volevo essere o diventare non mi appartiene più.
Avevo una casa, un marito, un lavoro. E la famiglia che avevo sempre voluto. Ma i debiti accumulati da mio marito, che nel frattempo era scomparso senza lasciare traccia, mi hanno fatto perdere tutto. E così, non riuscendo a ripagarli, me ne sono andata per lasciare ai miei ragazzi un tetto sulla testa.
«Nessuno avrà il coraggio di mandarli via» mi sono detta. Sapevo che avrei rischiato di perderli per sempre. Di perdere il loro rispetto, la loro stima. Quale figlio può essere indulgente se viene abbandonato?
Vago per Milano senza meta
Una mattina ho detto addio ai miei quattro ragazzi e sono andata via senza dare troppe spiegazioni. I due maggiori lavoravano già e si sarebbero occupati dei più piccoli, di 17 e 16 anni. Ho pensato che fossero autosufficienti e che sarei stata un peso in meno. Ho sbagliato? Forse. In quel momento pensavo di non avere scelta. Credevo che sarei tornata. Che ormai i miei problemi erano tali e tanti da rendermi distante ugualmente, anche quando ero a casa. Ho vagato per Milano senza una meta, pensando che sarebbe durato poco. Il tempo di trovare una soluzione. Ma il tempo è passato senza che riuscissi a trovarla e mi sono ritrovata a vivere così per sette anni. Alternando momenti di speranza ad altri di sconforto infinito. In cui si perde anche la lucidità. Non sono pazza. Non mi drogo, non sono alcolista. Quando mi chiedono cosa sia successo da quando ho lasciato casa, mi accorgo di essere confusa. Ho rimosso molti ricordi che avevano a che fare con la quotidianità. Succede a molti senzatetto. I ricordi sono la lama infilata costantemente nell'anima. Scavano nei sensi di colpa, alimentano la nostalgia. E non puoi permettertelo.
Ho iniziato a declinare i verbi al presente. Rimuovendo debiti, creditori, problemi. Senza passato sei una donna nuova. Succede perché stai male. Molto. Un male oscuro che si fatica a pronunciare, ma che si impossessa della tua felicità, fino a grattarla via.
Mi tolgono anche il lavoro
Ero dipendente di un ospedale lombardo. Solo che, invece di rientrare in una casa, quando uscivo da lì dormivo all'aperto, nella stazione milanese della metro Greco Pirelli. Non avevo un letto, ma strati di cartone sotto la schiena che non mi hanno mai messa al riparo totalmente dall'umidità. Non avevo un tetto, ma con un po' di fantasia ogni tanto la trapunta la vedevo sopra la testa ed era di stelle. Quell'umidità, giorno dopo giorno, mese dopo mese e infine dopo anni, ha mutato il mio corpo, la mia salute, mi ha fatto perdere il lavoro. «Troppe assenze per malattia» mi hanno comunicato. Avevo avuto bronchite, tosse, polmonite.
Ma soprattutto credo di aver subito il pregiudizio che una senzatetto, in un luogo di lavoro, non fosse opportuna. Eppure ogni giorno io mi lavavo, anche se nei bagni pubblici, mi vestivo in modo ordinato e pulito, con gli abiti che prendevo nei centri di accoglienza. Mi facevo perfino la tinta ai capelli perché dai cinesi costa poco. E la solidarietà, fra i poveri, così come la dignità, è l'unica cosa che non manca. Anche se ci trattano come invisibili, anche se molti ci immaginano rovesciati sulle panchine a scolarci bottiglie di alcol per riscaldarci, la verità è che siamo talmente simili a chi ci passa accanto da non riuscire a distinguerci.
Tra gelo e caldo sfioro la morte
La strada mi ha indebolita per molti aspetti, ma mi ha resa così forte da sopravvivere al gelo dell'inverno milanese e ai 40 gradi della città che non ha riparo d'estate, se non nei parchi, sotto gli alberi, dove si trascorre il tempo anche restando in silenzio. Quante volte avevo alzato il riscaldamento, a casa, borbottando: «Muoio di freddo!». O azionato i ventilatori, scherzando con i miei figli che altrimenti saremmo morti dal caldo. E invece, più di una volta ho davvero sfiorato quella sensazione. Spesso non parlavo con nessuno, ma mentre dipingevo - unica passione che non ho abbandonato - mi ritrovavo a tessere dialoghi immaginari con i miei figli.
Ho vissuto con la mia micro comunità che è diventata una famiglia allargata, ma non c'è stato giorno in cui non abbia pensato a loro. Guardavo gli studenti al parco e speravo di intravedere il volto della mia figlia minore. A lei piaceva molto studiare, stare all'aria aperta. Qualche volta, svegliandomi di soprassalto, l'ho anche chiamata a voce alta, sperando che fosse lei. Come un'allucinazione. Ma non si è mai girata nessuna di quelle ragazze. In questi anni ho sempre controllato i miei figli da lontano. Ho seguito la loro crescita in silenzio, da dietro il muro di un bar, o restando sotto casa per ore, fino a vedere la luce della cucina spegnersi per immaginarmi ancora lì, accanto a loro. Al caldo, al sicuro. Dove una madre dovrebbe essere.
Mamma dei senzatetto
Mi chiamava mamma un ragazzo egiziano che viveva nello scantinato del cortile dell'Università Bicocca. Un giorno l'hanno rimandato al suo Paese. E non l'ho visto più. Ho conosciuto un nuovo compagno. Che mi ha scaldata, durante molte sere ruvide in cui il gelo diventava pungente, insopportabile e pensi di non poter sopravvivere. Non ti senti nemmeno più una donna. Perché non hai più niente che te lo ricordi. Ci siamo lasciati. Senza lavoro, senza una famiglia, ho deciso di dedicarmi agli altri. Ho aperto la prima Onlus per i senzatetto, ideata da persone senza fissa dimora. Ho salvato molte vite, ho organizzato volontari al mezzanino, il corridoio della stazione Centrale che il Comune di Milano apre ai clochard perché possano superare l'inverno. Non mi sento un'eroina. Sento solo che sia giusto, avendo conosciuto questo inferno, evitare che altre persone si sentano così sole e in pericolo.
Oggi sono nonna, mi sono riavvicinata ai miei figli e continuo a gestire l'Onlus con i pochi sussidi che riesco a ottenere. Chi vuole mi trova lì, alla stazione Centrale. Ho anche una casa, oggi, e un nuovo compagno. La prima volta che ho rimesso piede tra quattro mura mi è sembrato di rivivere davvero tutta la vita in un giorno.
Gemma, nome di fantasia, ha 70 anni; quattro figli ed è nonna. Vive a Milano, dove ha fondato una Onlus per le persone senza fissa dimora.



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