Numero 3 del 2020
Titolo: C'era una volta
Autore: Redazionale
Articolo:
Bellindia
Fiabe classiche e popolari italiane
C'era una volta un mercante di Livorno che aveva tre figliole, che si chiamavano Assunta, Carolina e Bellindia: quest'ultima, in particolare, gli era molto più cara delle altre due, perché loro erano tutte ambiziose, mentre lei, invece, era modesta e badava sempre alle faccende di casa.
Un giorno il mercante arriva a casa tutto disperato e dice alle sue figliole: «Lo sapete cosa succede? C'è una cattiva notizia: è andato perso il bastimento con dentro tutte le mie mercanzie e adesso siamo rovinati». Alla notizia di quella sciagura, Assunta e Carolina scoppiarono a piangere, ma Bellindia disse: «Se è così, pazienza, tireremo a campare. Non vi abbattete, c'è rimedio a tutto, tranne che alla morte».
Siccome, dunque, a causa della perdita di quel bastimento, la famiglia del mercante non fu più ricca, si trasferirono tutti in una casetta di periferia; ma le sorelle di Bellindia non sapevano darsi pace, perché erano troppo ambiziose per condurre una vita modesta e ritirata; occuparsi delle faccende domestiche sarebbe stato troppo per loro, così, tutto il peso ricadeva sulla povera Bellindia.
Passarono diversi mesi, quando una mattina, il mercante, di ritorno da Livorno, venne avanti con l'aria più allegra del solito. «Sapete, figliole? Ho da darvi una splendida notizia: il bastimento non è andato perduto del tutto, ma è giunto al porto con metà del carico». Le ragazze si ringalluzzirono alquanto a sentir quelle parole, poi, il mercante, proseguì: «Domani torno a Livorno a recuperare i miei averi. Cosa volete che vi porti in regalo, figliole?».
Rispose Assunta: «Un bel vestito di seta color dell'aria». E Carolina: «Invece io ne voglio uno color di pesca». Mentre Bellindia taceva e non chiese nulla. Su insistenza del padre, alla fine rispose: «Babbo, io vorrei soltanto una bella pianta di rose». Allora il padre si mise a ridere, mentre le sorelle le diedero della stolta e della scimunita, e la sbeffeggiarono a più non posso, ma lei tornò a dire: «Se volete portarmela, babbo, io non desidero altro».
Il giorno dopo, il mercante si recò a Livorno, ritirò tutti i suoi averi e li rinchiuse in un magazzino; scelti poi i vestiti per le figlie più grandi, ripensando alla richiesta di Bellindia, fu sul piede di convincersi a non portarle a casa niente, poiché non aveva voglia di impazzire a cercare una pianta di rose; e quando fu sera, per tornare, noleggiò un cavallo e lasciò la città, diretto a casa. Il mercante era tutto immerso nei suoi pensieri e non badò al cavallo, sicché, a un tratto s'accorse di aver smarrito la strada e si trovò al buio in mezzo al bosco, e più cercava di uscirne, più s'addentrava nella foresta. A forza di girare, mezzo disperato, il mercante arrivò a un giardino e in fondo vide un gran palazzo pieno di lumi; pensò allora di andare a domandare informazioni, così, scese sul piazzale, dove non c'era anima viva. Diretto al portone, montò le scale ed entrò in una grande sala, ma il palazzo sembrava proprio disabitato. A un certo punto si ritrovò disorientato, in quel luogo abbandonato, e non seppe più cosa fare, quando, da un uscio vide che in salotto c'era una tavola imbandita, e siccome aveva molta fame, fu attirato dal profumo delle pietanze e si sedette a tavola, mangiando con molto appetito. Doveva essere proprio capitato nel castello delle meraviglie, perché come svuotava i piatti, gliene ricomparivano subito degli altri pieni. Però non si vedeva nessuno. Dopo che mangiò a sazietà, il mercante cercò una camera per dormire, e quando l'ebbe trovata, cosa che gli risultò facile, si spogliò e si buttò a letto, e stanco com'era, dormì come un ghiro.
La mattina dopo, appena sveglio, il mercante pensò: «È ora che me ne vada e che cerchi di ritrovare la strada di casa». Detto fatto s'alzò e scese in giardino a prendere il cavallo, che nel frattempo era stato messo a riparo nella stalla, custodito, strigliato e trattato con grande garbo. Stava per montare in groppa, quando, voltando casualmente lo sguardo, vide in fondo a un viale un gran capanno di bellissime piante di rose, e disse: «Oh, beh! Ne approfitterò per portarne una a Bellindia». Si diresse verso le rose, e strappò una pianta. Misericordia, non l'avesse mai fatto! Tutto a un tratto si sentì un gran fragore, ed ecco comparire dal nulla un Mago brutto e terribile quanto il diavolo. A quella vista, il mercante, impaurito, cominciò a tremare, ed il mago esclamò, con due occhiacci rossi che parevano schizzar fuoco: «Birbone! Dopo tutto il bene che ti ho fatto, dopo che ti sei servito di tutto punto in casa mia, osi pure venire qui a trafugarmi le rose! Per castigo, ti condanno a morte».
Il mercante allora cominciò a scusarsi e a chiedergli perdono, e gli raccontò che aveva preso la rosa per accontentare un capriccio della sua figliola Bellindia, e il Mago disse: «Ebbene, se quanto dici è vero, per ora non ti faccio niente. Va' pure a casa con la pianta delle rose, ma tra otto giorni dovrai tornare qui con tua figlia, altrimenti ti uccido. E bada bene di ubbidirmi». E così dicendo, sparì. Il povero mercante era disperato, figuratevi come poteva sentirsi! Ritrovò la strada, arrivò finalmente a casa e raccontò tutto quanto alle sue figliole. Assunta e Carolina si misero a rimproverare Bellindia, biasimandola per l'accaduto; ma ella disse: «La colpa è tutta mia, dunque, andrò dal Mago e voi sarete contente». E quando furono trascorsi gli otto giorni fissati dal Mago, il mercante partì con Bellindia e la scortò al palazzo, dove trovarono ogni cosa preparata per accoglierli, e, salite le scale, su una porta v'era scritto: «Appartamento di Bellindia». Non mancava proprio nulla; soltanto non si vedeva anima viva. Il mercante era sconvolto all'idea di dover abbandonare la sua figliola prediletta nelle mani di quel brutto Mago, e non se la sentiva di andarsene, ma Bellindia gli infuse coraggio, rassicurandolo che non aveva affatto paura, e alla fine il mercante si rassegnò a tornarsene a casa. S'abbracciarono, e Bellindia promise di scrivere per tenerlo aggiornato sulle novità.
Rimasta sola in quel palazzo, Bellindia cominciò a girare per tutte le stanze, e quando fu ora di pranzo, andò al salotto dove trovò la tavola apparecchiata. Mentre mangiava, si udì un gran fragore che mise addosso alla povera ragazza una gran paura, e le comparve davanti il Mago, che disse: «Non temere, Bellindia. Voglio solo sapere se tu mi vuoi bene». E Bellindia rispose: «Sì, che ve ne voglio». E il Mago: «Allora mi sposeresti?». «Oh, no, questo no» rispose la ragazza, e allora il Mago sparì. E così, tutti i giorni a ora di mangiare, succedeva la stessa cosa, con il Mago che faceva a Bellindia le stesse identiche domande; così, ben presto la fanciulla cominciò a non avere più paura del Mago, e a volergli bene davvero: ma di sposarlo, non se ne parlava.
Dopo parecchi mesi, Bellindia ricevette una lettera dal babbo, che la invitava alle nozze della sorella Assunta con un ricco boscaiolo. Attese l'ora del pranzo e chiese il permesso al Mago di partire e il Mago rispose: «Va' pure, ma ricordati di tornare entro otto giorni, se non vuoi trovarmi morto. Tieni questo anello; se la pietra s'annerisce, vuol dire che sto male: in quel caso, torna subito. Prendi pure quello che più ti piace dal palazzo, portalo in dono a tua sorella, e metti tutto in un baule stasera. Ma ricordati di tornare entro otto giorni». Bellinda disse: «Non dubitate, sarò di ritorno tra otto giorni». Poi, prese il baule e lo riempì di abiti di seta, di biancheria fine, di gioielli e di quattrini, e lo ripose ai piedi del letto, come il Mago le aveva detto, e la mattina, quando si svegliò, si ritrovò in casa del babbo con tutto il baule. Sulle prime, le fecero grandi complimenti, ma quando le sorelle sentirono che lei era tanto ricca e felice da non mancarle nulla, cominciarono a rodere dall'invidia, e riuscirono persino a sottrarle l'anello del Mago con la scusa di tenerselo un po' al dito. Bellindia si disperò, perché non poteva più controllare la pietra dell'anello, e quando fu il settimo giorno, tanto pianse e pregò, che il suo babbo ordinò alle sorelle di restituirle subito l'anello; e lei, appena lo guardò, vide che la pietra si era di molto scurita, sicché, la mattina dopo volle a tutti i costi ripartire, e il suo babbo dovette riaccompagnarla e là la lasciò. A pranzo il Mago non comparve, e Bellindia, preoccupata, stette a lungo a chiamarlo e a cercarlo, ma non lo trovò. Venne a cena, e Bellindia lo trovò molto sciupato. Ed egli le raccontò: «Sappi, Bellindia, che ho quasi rischiato di morire; se avessi aspettato un altro po' a tornare, di sicuro mi avresti ritrovato morto. Che, per caso, non mi vuoi più bene?». «Ma certo che ve ne voglio», rispose lei. «E mi sposeresti?» domandò il Mago. «Oh, no, questo no» rispose Bellindia.
Passarono altri due mesi, e un giorno arrivò un'altra lettera del babbo che le annunciava l'imminente matrimonio della sorella Carolina. Anche quella volta, il Mago consentì a Bellindia di partire, ma le fece le medesime raccomandazioni, le diede di nuovo l'anello e le disse di ritornare puntuale se non voleva trovarlo morto. E Bellindia il giorno dopo si ritrovò di nuovo a casa del babbo con il baule pieno di regali per la sorella; e quando la videro, le sorelle le andarono incontro con un sorriso forzato, perché l'astio le divorava. In particolare Assunta, divenne ancora più dispettosa e arrabbiata, perché il marito boscaiolo la bastonava tutti i santi giorni per il suo pessimo comportamento. Bellindia raccontò loro tutti gli avvenimenti dell'ultima volta, e disse che questa volta avrebbe dovuto tornare a tutti i costi dal suo Mago, che la trattava tanto bene. Le sorelle, però, a quei discorsi, si misero in testa di farle capitare una disgrazia, e con una scusa qualsiasi le sottrassero l'anello, e non glielo vollero più ridare fino alla fine della scadenza degli otto giorni, e a quel punto la pietra era diventata quasi del tutto nera. A quello spettacolo spaventoso Bellindia si sentì mancare, e la mattina dopo volle ripartire a tutti i costi, e le sorelle cattive erano tutte contente di vederla in lacrime, perché loro credevano che il Mago fosse morto da un pezzo, e così, pensavano, sarebbe terminata anche la buona sorte della sorella.
Quando Bellindia giunse al palazzo, il Mago mancò sia al pranzo che a cena, e nessuno lo vide. Disperata, Bellindia si mise a cercarlo dappertutto, e, gira di qua, gira di là, finalmente lo ritrovò in giardino, sotto le rose, disteso a terra come morto. Bellindia, disperata, gli si buttò addosso, lo abbracciò, lo baciò piangendo, lamentandosi che per colpa sua gli era successa la disgrazia: «Ora non c'è più bene per me! Povero il mio tesoro! Se tu fossi vivo, io ti sposerei subito per farti contento». A queste parole, il Mago si raddrizzò rinvigorito, e nello stesso istante, da brutto mago si trasformò in un bellissimo giovane. E disse: «Grazie, Bellindia mia. Sappi che io sono un figlio di Re, e fui vittima di un incantesimo scagliatomi da una fata, sicché, non avrei potuto ritornare uomo fino a quando non fosse comparsa nella mia vita una fanciulla capace di acconsentire a sposarmi nonostante le mie terribili sembianze. Dunque, adesso tu diverrai la mia sposa e sarai Regina del mio regno». Bellinda, tutta frastornata e sbalordita, non stava più in sé dalla gioia. Mandarono a chiamare il mercante con le figlie maggiori, e festeggiarono grandiosamente le nozze di Bellindia con il principe; ma Assunta e Carolina furono scacciate per punirle dell'astio che avevano dimostrato alla sorella, e tanta fu la loro rabbia, che cascarono morte stecchite tutte e due.
Bellindia se ne andò con il suo sposo nel suo nuovo regno, insieme vi rimasero felici e contenti per tutta la vita.
Gherardo Nerucci