Numero 2 del 2020
Titolo: ATTUALITÀ- Vince sempre il gioco di squadra
Autore: Cecilia Camellini
Articolo:
"If it is important to you, you will find a way. if not, you’ll find an excuse".
"Se per te è importante, troverai un modo per farlo. se non lo è, troverai una scusa".
Ryan Blair
La squadra italiana di ciclismo del Tour de France del 1949 è una meraviglia. Agli ordini del ct Alfredo Binda ci sono due grandi campioni: Gino Bartali e Fausto Coppi. Bartali ha conquistato il Tour l’anno prima e vincere due volte di seguito è difficilissimo; Coppi, invece, ha trionfato al Giro d’Italia il mese prima, e nessuno è mai riuscito a conquistare Giro e Tour nello stesso anno. Non c’è un vero capitano, e la cosa a Coppi non piace tanto: alla partenza è imbronciato, introverso.
Il Tour non inizia bene. Nelle prime tappe, il caldo torrido, la corsa condotta ad alta velocità, le fughe e le controfughe promosse da corridori di secondo piano, ansiosi di farsi vedere, mettono la squadra italiana in seria difficoltà. Alla fine della quarta tappa, la Boulogne-Rouen, in maglia gialla c’è Jacques Marinelli, un francese alto un metro e un tappo, ma molto combattivo. Tanto che il giorno dopo, il 4 luglio, nella Rouen-Saint-Malo, attacca e va in fuga. Coppi gli sta dietro. Fa un caldo maledetto e la polvere si attacca anche alle ascelle.
A un certo punto, Marinelli ha sete, vede uno spettatore che gli offre una borraccia e scatta per afferrarla, ma Fausto ha pensato di fare la stessa cosa. Le ruote si toccano, i due cadono. Qualche escoriazione, nulla più, ma le bici sono incastrate. Con un po’ di fatica, le liberano: quella di Marinelli è intatta, e il francese riparte; quella di Coppi è rotta, inservibile, e sull’auto italiana c’è solo una bici di scorta, quella di Mariolino Ricci, che è bassettino.
Coppi prova ad alzare il sellino, ma niente. Isterico, rifiuta la bici, si siede su una pietra miliare, piange.
Qualcuno gli fa notare che, al posto suo, Bartali avrebbe pedalato anche su una bicicletta da donna: mossa sbagliata, Fausto è sempre più disperato. Quando, con gli altri italiani, arriva anche la bici di scorta, pedala svogliato e arriva al traguardo con quasi 37’ di ritardo.
Non si può vincere il Tour se alla quinta tappa sei già indietro di 37’. E, soprattutto, se non hai voglia di farlo. L’allenatore prova a convincerlo a restare in gara, ma lui pensa solo a tornarsene a casa, a Tortona. Ormai la corsa è persa.
"E poi anche lei, Binda, una volta si è ritirato dal Tour" aggiunge.
"Sì, e me ne sono pentito tutta la vita".
La cosa finirebbe lì, se non fosse per Biagio. Biagio Cavanna è di Novi. Da giovane faceva il pistard, uno specialista del ciclismo su pista, ma una malattia lo ha fatto diventare cieco. Volendo rimanere nel suo sport, era diventato massaggiatore.
I suoi occhi non vedevano, ma le sue mani erano quasi magiche: per i corridori, lui era l’"Orbo veggente".
"Fausto" gli dice quella sera, massaggiandolo, "non mollare".
"A cosa serve proseguire?".
"Serve a capire quanto il Tour è importante per te. Ascolta: domani c’è una tappa facile, il 6 c’è riposo e il 7 una cronometro di novantadue chilometri. Cerca di vincerla, ti togli una soddisfazione e poi, se vuoi, torniamo a casa insieme".
Interrompo un attimo la storia, semplicemente perché, mentre leggevo il libro, a questo preciso punto ho fatto realmente una pausa e mi sono chiesta cosa avrei fatto io al posto di Coppi. Io che la bici la uso solo d'estate e mi faccio volentieri tirare dalla persona che guida il tandem. Questo è un libro che vi consiglio di leggere tutto: nelle sue pagine sono raccolte e raccontate 99 storie sportive che hanno ispirato l'autore e lo ispirano ancora nella vita quotidiana. Sto parlando di "Goals", scritto da Gianluca Vialli, uomo di sport che non ha bisogno di presentazioni. Il suo libro non è un’autobiografia e nemmeno un semplice insieme di imprese sportive altrui, ma un originale manuale di ispirazione e meditazione dal taglio motivazionale. Ciascuno di noi ha dei "goals", degli obiettivi da raggiungere. E non sempre per raggiungerli serve stare troppo a pensarci su: bastano poche parole e una mano che ci dia il coraggio.
Con sincerità ho fatto fatica a selezionare una storia tra le tante per condividerla oggi. Poi, quasi puntando il dito a caso sull'indice, ho preso questa: non tanto per la presenza di un fisioterapista cieco, cosa che per gli anni 50 poteva considerarsi quasi rivoluzionaria, soprattutto in un contesto del genere. Ho pensato di fare un augurio di inizio anno a tutti noi che leggiamo queste pagine, per tutte quelle volte in cui ci siamo ritrovati con una bicicletta rotta e i secondi di svantaggio che aumentano. L'augurio che ci faccio è quello di trovare sempre una via e non una scusa, via che può essere dovunque, basta saperla sentire. A volte può nascondersi nelle mani di un fisioterapista, a volte nel consiglio che non vogliamo mai ascoltare o, più semplicemente, può essere una telefonata, un saluto, una risata che dà avvio alla realizzazione di quel buon proposito che rimandiamo da troppo tempo.
E mi auguro che la via per realizzare ciò che vogliamo sia un po' come quella di Coppi. Se per lui è stato impossibile evitare che la bici si rompesse, però non si è lasciato spezzare a sua volta. Sì, ha pianto, ha fatto anche l'isterico, ma poi ha aperto la mente a nuove possibilità, lasciandosi convincere a ripartire una tappa per volta, senza preoccuparsi dell'accumulo di svantaggio e dei suoi pensieri negativi. Ovvio che, se non ce l'avesse fatta, almeno avrebbe avuto la soddisfazione di averci provato fino in fondo. Come accaduto al destino di Biagio Cavanna, in un certo senso anche la corsa di Coppi non è andata come lui sperava: entrambi però hanno fatto del proprio ostacolo la leva per capire quanto tenevano al ciclismo e, in un modo o nell'altro, sono rimasti in sella. Coppi avrebbe avuto mille scuse per fermarsi: il caldo, la mancanza di motivazione dovuta all'assenza di un vero e proprio capitano, la bici rotta ecc. Eppure ha trovato l'unico motivo che davvero serve per andare avanti: la voglia di giocarsela senza badare a un vero e proprio obiettivo.
Anche un campione forte come Coppi ha avuto bisogno di aiuto: un atleta esperto come lui avrebbe potuto pensare di essere invincibile sia sulla sua bici, sia una volta sceso dalle ruote.
Invece gli è bastato uno scontro con un altro ciclista per rendersi conto che la sua vera forza si è misurata nella sua capacità di essersi lasciato aiutare. Se avesse continuato deliberatamente ad ignorare le parole del suo allenatore e poi i consigli di Biagio, probabilmente si sarebbe ritirato. La sua forza, secondo me, si trova anche in questa sua voglia di lasciarsi convincere e trascinare dalla sua passione e dalle parole di chi, come lui, teneva al raggiungimento del suo obiettivo. Non solo gambe e bicicletta, quindi: ci troviamo di fronte a un tour vinto anche grazie al coraggio di un uomo che si è lasciato sostenere e dare energia nel momento in cui gli sono mancate.
E così penso a quante volte, in situazioni spiacevoli, sappiamo chiedere aiuto e ci lasciamo aiutare. Abbiamo anche noi un "Biagio" di cui ci fidiamo e che ci sa ispirare quando le cose non vanno? Cambia o è sempre quello? Quante volte il nostro successo dipende dalle persone che ci aiutano dietro le quinte?
C'è un personaggio, in tutta questa storia, che come Biagio è rimasto sullo sfondo e non ho ancora nominato. Parlo di Ryan Blair, che a dire la verità non so quanto ci azzecchi con il ciclismo. Comunque è lui che con una sua frase dà il titolo al racconto dell'avventura di Coppi. Spesso mi piace conoscere anche la vita e la storia di chi sta dietro alle citazioni, dato che troppo spesso tendiamo a collezionarle come singole istantanee senza collegarle realmente a un nome (tranne nei casi più famosi). In questo caso dobbiamo il ringraziamento a un imprenditore americano, cofondatore di un'importante multinazionale che, a quanto pare, produce integratori e si occupa di alimentazione. Anche Ryan Blair ha scritto libri e parla di successo e realizzazione. Quanto la gestione sportiva abbia in comune con la gestione d'impresa è un capitolo a parte: basti pensare a quanto un'azienda possa assomigliare ad una squadra, con i suoi obiettivi e le sue regole, dove le ore di allenamento sono sostituite dalle ore di lavoro.
Insomma, come vedremo tra qualche riga, anche in uno sport quasi individuale come il ciclismo, vince sempre il gioco di squadra, squadra che vede la partecipazione di tantissimi ruoli, oltre quelli classici dell'atleta e dell'allenatore.
E così, appena Coppi stravince la cronometro, anziché tornarsene a casa con Cavanna decide di restare. Guadagna altri minuti sui Pirenei e poi, insieme a Bartali fa il vuoto nella Cannes-Briançon; lascia la vittoria (e la maglia gialla) a Bartali, nel giorno dei suoi trentacinque anni. Sul colle dell’Izoard Bartali tentenna, ma Coppi no. Ormai è imprendibile. Sul traguardo di Aosta va a 5’ su Bartali, e con la crono di Nancy i minuti di vantaggio diventano 7. Il 24 luglio è il giorno dell’ultima tappa, e a Parigi Fausto Coppi ha un mazzo di gladioli in mano: vince la corsa con 10’55” su Bartali, 25’13” su Marinelli, 34’28” su Robic. Erano partiti in centoventi, sono arrivati in cinquantacinque. Vincerà anche la classifica scalatori, e l’Italia la classifica a squadre.
Cavanna e Coppi si ritrovano sul lettino, quella sera, per l’ultimo massaggio del Tour; piangono tutti e due, e non dicono niente. Solo alla fine, Cavanna si lascia scappare: "T’oi vist?". "Hai visto?": il massimo della confidenza permessa, tra due amici piemontesi.