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Kaleîdos

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Numero 4 del 2020

Titolo: Clarice Lispector

Autore: Rosa Baldocci


Articolo:
(da «F» n. 7 del 2020)
Mi chiamano la Franz Kafka brasiliana. Perché come lui racconto i luoghi bui e misteriosi dell'animo umano
Fuggita dall'Ucraina a causa delle origini ebree, Clarice ha soli 9 anni quando vede morire sua madre. Quel dolore è la linfa dei suoi scritti. A 100 anni dalla sua nascita, ecco la storia di un'autrice straordinaria
«Assomigliava a Marlene Dietrich e scriveva come Virginia Woolf». Così descriveva Clarice Lispector il traduttore americano dei suoi romanzi, Gregory Rabassa. Bellissima donna dallo sguardo altero e diretto, bocca rossa e unghie laccate di scuro, a tutto Clarice faceva pensare fuorché a una scrittrice di estremo talento, labirintica e sperimentatrice, lacerata e lacerante. «Capace di condurre il lettore alla ricerca dell'invisibile nucleo della realtà e del male attraverso un flusso di coscienza impetuoso, a tratti delirante, ma sempre visceralmente femminile», come ebbe a dire il critico Alfredo Giuliani.
Clarice è stata per molti versi una scrittrice enigmatica, misteriosa, dall'infanzia segnata da quelle persecuzioni che devastarono la vita di milioni di russi all'inizio del secolo. Cosa avrà mai potuto significare infatti per una bambina nata in Ucraina nel 1920, da genitori ebrei perseguitati, ritrovarsi in fuga verso il Brasile all'età di un anno e poco più?
Dover affrontare un mondo completamente sconosciuto, a suo modo ostile, cambiando il proprio nome da Chaya in Clarice, seguendo la sua famiglia da una città all'altra, alla ricerca di una difficile sopravvivenza? E cosa mai avrà potuto significare per una bambina di nove anni veder morire la propria madre, fiaccata nella salute e nell'anima dalla sifilide contratta a causa dei numerosi stupri subiti durante la Guerra civile russa? E aiutare un padre perseguitato dalla povertà? Tutto. O forse ancora di più: l'indicibile. Clarice-Chaya non parlò mai direttamente del suo passato familiare nei racconti o nei romanzi. Neppure nelle interviste. Né in altre occasioni. Ma da quell'oceano di dolore trasse il nutrimento che si trasformò in scrittura, in «elaborazione inconscia che si fa rivelazione», come diceva lei stessa.
Il disgusto per l'ipocrisia del bel mondo
Difficile da leggere Clarice Lispector. Si fatica, pagina dopo pagina, ma si rimane ipnotizzati. Si vuole capire. Prendete «Vicino al cuore selvaggio», il suo primo libro, che la rese celebre in brevissimo tempo e il cui titolo è una citazione di James Joyce. Fu definito «il più grande romanzo che una donna abbia mai scritto in lingua portoghese». Libro arduo, ma impossibile da abbandonare: la voce della protagonista Joana seduce perché possiede un fuoco centrale che è anche un nulla, una mancanza. Clarice l'aveva scritto a 23 anni, mentre ancora studiava Legge all'università e lavorava per alcuni giornali.
Subito dopo si sposerà con Maury Gurgel Valente, suo compagno di studi appena entrato in diplomazia, inaugurando così una vita apparentemente brillante, in giro per le ambasciate del mondo, vita che però Clarice non amerà per nulla.
Prima lo seguirà a Napoli, dove curerà nel 1944 i soldati brasiliani feriti, poi a Roma dove Giorgio De Chirico le farà un ritratto e il poeta Giuseppe Ungaretti tradurrà parte del suo libro, poi in Svizzera di cui Clarice così scriverà: «Questa Svizzera, un cimitero di sensazioni. Lo sforzo di scrivere mi tenne viva e occupata, mi salvò dal devastante silenzio di Berna e quando finii l'ultimo capitolo entrai in ospedale per far nascere il mio primo figlio». Poi nuovamente il Brasile, la Cornovaglia e Washington, dove nasce il suo secondo figlio maschio. Fino al 1959 Clarice si adatta alla vita che ha scelto, ma annota: «La odiavo, anche se facevo ciò che dovevo fare. Organizzavo dinner party, incontri, frequentavo le persone che mi veniva richiesto, facevo tutto ciò che era giusto per il mio ruolo, ma con disgusto».
Rio de Janeiro, meu amor
Alla fine non resiste più: si separa dal marito, prende i due figli e ritorna in Brasile, a Rio de Janeiro, città che non lascerà mai più. «Io sono più forte di me», diceva. Perfetta sintesi di un carattere sempre capace di alzare la posta quando tutto lascia presagire che la partita sia chiusa. In Brasile, però, la vita non è facile. Clarice riprende a lavorare per i giornali e continua a scrivere un libro dopo l'altro, lottando per farli pubblicare. Nella raccolta di racconti «Legami familiari», nei romanzi «La mela nel buio», «La passione secondo G. H.», «Acqua viva», Clarice utilizza sempre monologhi interiori, simboli, metafore, uno stile «ermetico che ha la consistenza dei sogni». A volte sono opere troppo enigmatiche per incontrare un largo favore di pubblico anche se l'autrice continua a essere considerata la «Franz Kafka del Brasile».
Una sigaretta di troppo
Nel 1966 la sua vita è scossa da un incidente che sembra essere uscito dalle immagini di un film o da un suo funesto racconto. Una notte, nel suo appartamento di Rio, Clarice si addormenta a letto con la sigaretta accesa e prende fuoco. «Il fuoco ha distrutto la mia mano destra (che le fu parzialmente amputata, ndr). Le mie gambe sono state marchiate per sempre. Ciò che è accaduto è molto triste e preferisco non pensarci. Quello che so è che ho passato tre giorni all'inferno dove - dicono - finiscono i cattivi dopo la morte. Io non mi considero cattiva, ma l'ho sperimentato da viva». L'incidente, però, non le impedirà di continuare a lavorare e Clarice non smetterà di scrivere fino all'ultimo giorno della sua vita, dieci anni più tardi, quando un tumore alle ovaie le toglierà la vita all'età di 57 anni. E su di lei come scrittrice le parole più giuste sono quelle del critico Alfredo Giuliani: «Si resta con un'impressione luminosa, ancorché sgomenta, attraversando l'atmosfera di sgradevolezza, di malessere e di smarrimento, di indecifrabilità, di serpeggiante ed esplosiva follia che avvolge i personaggi della Lispector. La grande virtù dell'autrice sta nella decisione di guardare come fioriscono, come si staccano dal fluire opaco dell'esistenza, gli stati di coscienza enigmatici, i collassi dell'identità personale, le fughe impossibili dagli ordini stabiliti».
Rosa Baldocci



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