Numero 15 del 2019
Titolo: Linda, che traduce il dolore dei malati
Autore: Giorgiana Scianca
Articolo:
(da «Donna Moderna» n. 32 del 2019)
Linda De Luca ha 34 anni e da 5 fa l'interprete medica negli ospedali americani. Aiuta i pazienti stranieri a comunicare con il personale sanitario. Ma soprattutto a farli sentire meno soli e spaventati
Vorremmo tutti fuggire dagli ospedali. Invece Linda De Luca, 34 anni di Varese, in corsia si sente a casa. Con una laurea in Interpretariato e traduzione, il pallino per la medicina e la passione per l'inglese, fa da interprete ai pazienti stranieri che vanno a New York per curarsi. Negli ospedali Linda non solo mette in contatto persone che altrimenti non riuscirebbero a comunicare: si fa anche carico di ogni emozione del paziente che le siede accanto. Al telefono parla con voce dolce e tono accogliente. Non mi stupisce che i malati si sentano meno soli e spaventati quando c'è lei: da 5 anni li segue ovunque, dai reparti di fisioterapia ai più avanzati centri oncologici di Manhattan, da Brooklyn al Bronx. Grazie a questo lavoro senza orari ed emotivamente faticoso ha trovato il suo posto nel mondo: «Tradurre per me significa creare un ponte umano, anche con il dolore altrui: un legame forte e imprescindibile. Tanto che quando salto anche solo un giorno sento di perdere il mio scopo». All'estero, dove il turismo sanitario è in espansione, la figura dell'interprete medico è sempre più richiesta. Secondo i dati pubblicati dall'agenzia britannica Pwc, sono almeno 14 milioni le persone nel mondo, e tra queste molte sono italiane, che ogni anno si affidano a centri medici stranieri senza conoscerne la lingua. «Quando c'è in ballo la salute, la comunicazione tra malato e personale sanitario deve essere cristallina» sottolinea De Luca. «Per questo negli Stati Uniti c'è un protocollo ospedaliero che assegna un interprete a chiunque non sia madrelingua inglese».
D. Lei, anche se solo di riflesso, vive vicende di enorme sofferenza e paura. Come gestisce le sue emozioni?
R. Non è affatto facile. Ho dovuto imparare a staccarmi da ciò che affronto in ospedale, altrimenti avrebbe divorato la mia normalità. Anche se non credo mi abituerò mai veramente a vedere familiari o malati piangere dalla paura o dalla disperazione. È vero che in questi anni mi sono fortificata, ma l'attesa di un esito rimane sempre il momento peggiore. Spetta a me, e non al medico, dire a una persona se è guarita, migliorata o se le rimangono 5 mesi di vita. E se razionalmente so che non c'è motivo, a volte mi sento responsabile delle parole che sto traducendo e ci sto male. Nel tempo ho imparato a rimanere impassibile, però mi capita di uscire dall'ospedale in un fiume di lacrime, dopo che magari, davanti a loro, mi sono trattenuta per ore. Per fortuna è una debolezza temporanea, per recuperare le energie canto, suono la chitarra o faccio yoga.
D. La salute è una sfera molto intima. Che rapporto instaura con i suoi assistiti?
R. Provare empatia verso gli altri a me viene naturale, ma al training di interpretariato medico ci educano a non farlo, a essere distaccati, perché vogliono evitare che chi è fragile e malato si affezioni. L'idea è che il paziente riesca a prendere in mano la sua vita a prescindere da una figura marginale come quella dell'interprete. E su questo sono d'accordo ma, forte della mia esperienza di centinaia di casi, so bene quanto la sfera emotiva sia fondamentale per un malato che sta per affrontare una sfida importante. Così valuto di volta in volta come comportarmi e quando alla fine i miei assistiti mi ringraziano come se avessi contribuito al loro recupero, capisco che aprirgli il mio cuore è stata la cosa giusta.
D. Cosa si porta a casa da questi incontri?
R. Tantissimo e su molti fronti. Essere ogni giorno testimone di drammi da un lato mi ha reso più sensibile, dall'altro mi ha fortificata. Assistere ragazzini con malattie rare e le loro madri ti porta automaticamente a smettere di lamentarti per un mal di testa o il bisogno di ferie. E poi ho guadagnato in consapevolezza e serenità, dando il giusto peso ai miei piccoli e grandi traumi e ringraziando ogni giorno di essere in salute. Una fortuna che prima davo per scontata.
D. Come elabora però il dolore che vede ogni giorno?
R. Mi aiuta molto sentire di avere una vocazione per questo lavoro. Quando per esempio aiuto ragazzini tetraplegici o tengo la mano a un paziente che entra piangendo in sala operatoria, metto a tacere le mie emozioni, mi concentro sul qui e ora, cerco di ricordare in ogni momento l'importanza di ogni parola che devo tradurre e quanto sia prezioso il mio ruolo per quelle persone.
D. Da come ne parla sembra sia una vera scuola di vita.
R. Assolutamente. Dove c'è molta sofferenza spesso ci sono anche tanta forza e amore. Ricordo con particolare affetto una bambina siciliana da cui ho imparato tanto. Era affetta da 11 sindromi rare e nel mese in cui l'ho assistita nel reparto di terapia intensiva pediatrica ha rischiato di morire più volte. E io rimanevo ogni volta sbalordita dal coraggio con cui lottava e dalla dedizione incondizionata che riceveva dalla sua famiglia. Come loro, tanti dei miei pazienti si sono dimostrati eroi invisibili a cui mi ispiro ancora oggi.
D. Chi sono gli italiani che si rivolgono a lei?
R. Solo una piccola parte arriva dall'Italia, di solito in cerca di cure o consulti su patologie rare o neurodegenerative, dove negli Usa sono all'avanguardia. È difficile da credere, ma nella maggior parte dei casi assisto immigrati che, nonostante vivano in America da oltre 50 anni, parlano un dialetto inglesizzato del siciliano, del calabrese o del campano. Per capirsi, è gente che per dire muratore usa la parola briccoliere (dall'inglese bricklayer). È una lingua a sé e, benché sia difficilissima da tradurre, a volte rende il mio lavoro, nonostante tutto, divertente.
Giorgiana Scianca