Numero 7-8 del 2019
Titolo: RUBRICHE- A lume di legge
Autore: a cura di Roberta Natale
Articolo:
Legge n. 104/1992: Abuso dei permessi legittimo il licenziamento
Con una recente sentenza n. 18411/2019, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore per abuso dei permessi riconosciuti ai sensi dell’art. 33, comma 3 della legge n. 104/1992.
Com’è noto, la principale fonte normativa in tema di permessi lavorativi retribuiti è costituita dalla Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (L. n. 104/92 e successive modificazioni ed integrazioni), la quale, all'art. 33, disciplina le agevolazioni riconosciute ai lavoratori affetti da disabilità grave e ai familiari che assistono una persona con handicap in situazione di gravità. Ne consegue che il comportamento di chi si avvale di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse dalla cura del disabile integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro sia dell’INPS con rilevanza anche ai fini disciplinari.
Le definizioni contenute all'art. 3 della summenzionata normativa chiariscono che "è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione" e che sussiste situazione di gravità "qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione".
I permessi retribuiti si traducono in tre giorni di riposo al mese anche frazionabili in ore o, in alternativa, in riposi giornalieri di una o due ore e spettano ai seguenti lavoratori dipendenti:
disabili in situazione di gravità;
genitori, anche adottivi o affidatari, di figli disabili in situazione di gravità;
coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto, parenti o affini entro il 2° grado di familiari disabili in situazione di gravità. Il diritto può essere esteso ai parenti e agli affini di terzo grado soltanto qualora i genitori o il coniuge o la parte dell’unione civile o il convivente di fatto della persona con disabilità grave abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Peraltro, il dipendente che usufruisce dei permessi per assistere un familiare in situazione di disabilità grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 Km rispetto a quello della sua residenza, ha l’obbligo di attestare con titolo di viaggio o altra documentazione idonea il raggiungimento del luogo di residenza dell’assistito al proprio datore di lavoro.
Tuttavia, le condizioni e la documentazione necessaria per accedere ai permessi lavorativi sono diverse a seconda che a richiederli siano i genitori, i familiari o gli stessi lavoratori con handicap grave.
Nel caso di specie, è stato dimostrato come il lavoratore, su due (dei quattro) giorni contestati dal datore di lavoro come permessi, non aveva prestato assistenza alla propria zia.
Al riguardo, il datore di lavoro era dovuto ricorrere ad un’attività investigativa privata che aveva poi dimostrato come il lavoratore non era uscito né entrato nella propria abitazione in orario compreso fra le 6.30 e le 21.00; e ciò valeva a dimostrare che non aveva prestato cura e sostegno alla zia malata.
Molte sono le controversie su tale tematica al punto da condannare coloro che abusano dei permessi della suindicata legge per svolgere commissioni personali o andare in vacanza o durante i ponti delle ferie.
A questo proposito, la Corte di Cassazione con ordinanza n. 4670/2019 ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al dipendente dell’azienda intento a svolgere attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed altri luoghi) anziché assistere il familiare per il quale usufruiva del permesso.
In tale contesto, si menziona anche la sentenza n. 5574/2016 della Corte di Cassazione con la quale veniva dimostrata l’indebita utilizzazione dei permessi appreso che il lavoratore dedicava solo una minima percentuale del tempo all’assistenza del prossimo congiunto malato (nella fattispecie il 17,5% del totale), ritenuta, pertanto, insufficiente a giustificare un’attività assistenziale conforme alle finalità di cui alla predetta legge.
I giudici hanno, infatti, ritenuto che, con tale condotta, il lavoratore avesse dimostrato "un sostanziale disinteresse per le esigenze personali del disabile e aziendali" violando il principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro, "tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa".
In conclusione, alla luce di quanto analizzato, viene ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti di un dipendente che utilizza i permessi ai sensi della legge n. 104/1992 per riposarsi e restare a casa siccome integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, altresì, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.