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Kaleîdos

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Numero 14 del 2019

Titolo: Silvia Semenzin - Revenge porn, la mia battaglia civile per combatterlo

Autore: Elena Filini


Articolo:
(da «F» n. 22 del 2019)
Prima scopre una chat di soli uomini con foto di ragazze in costume e commenti scabrosi. Poi «amiche di Facebook» le confidano di essere marchiate per sempre da video intimi diffusi in rete dai loro ex. Silvia inizia a occuparsi del tema. E, tra un'inchiesta e una petizione, sensibilizza la Camera. Finché la vendetta pornografica diventa reato
Non so cosa mi abbia preso quel pomeriggio. Mi occupo di diritti digitali e ho sempre avuto un senso di grande rispetto per la privacy altrui. Eppure ho preso il cellulare di un amico e ho iniziato a guardarci dentro. C'era una chat dal nome vergognoso: DonneTuttePuttane. Conteneva diverse foto di amiche al mare, in costume, fatte per gioco. Erano state scaricate dai loro profili Facebook, giravano di mano in mano accompagnate da commenti orribili. «Sono solo goliardate, se posti certe foto poi non puoi lamentarti. Dai, non fare casino», mi ha detto lui quando gli ho chiesto spiegazioni. L'ho trovato intollerabile: una donna può farsi tutte le foto che vuole, ma nessuno ha il diritto di farle circolare in questo modo umiliante. Ho pensato a Tiziana Cantone, la trentenne napoletana che si è tolta la vita nel 2016 per la gogna mediatica dei suoi video intimi, diventati virali sul web, il cosiddetto revenge porn, la vendetta pornografica. E, di getto, ho scritto un post su Facebook. «Attenzione, ci sono uomini che mandano in giro le nostre fotografie accompagnate da commenti sgradevoli. Ne sapete qualcosa?». Era un semplice sfogo, ma le mie parole hanno rotto il muro dell'ipocrisia, scoperchiando il vaso di Pandora. Amiche di amiche, leggendo quel post sul mio profilo, hanno iniziato a raccontarmi la loro vergogna.
Le storie delle altre
C'è chi si è trovata molestatori sotto casa perché il suo ex, dopo la fine della relazione, aveva aperto pagine porno a suo nome, con foto, video e dati sensibili. E chi ha avuto la sciagura di finire nella famigerata «Bibbia», un grosso archivio online di raccolta di immagini di revenge porn in cui le ragazze vengono schedate per nome e cognome. Quei dati non si possono rimuovere e tu sei segnata per sempre. Pochissime le donne che denunciano. Si vergognano e si sentono molto sole perché c'è ancora un grosso stigma sociale connesso a questo problema. Ero stufa di sentire questi racconti e di vivere nel timore che gli uomini usassero le nostre foto per affermare la loro virilità e sentirsi parte del branco. Sono un'attivista e ho deciso di fare qualcosa di concreto. «Dobbiamo approfondire, servono i numeri, è necessario capirci qualcosa in più», ripeto ad alcuni ricercatori con cui mi confido al rientro in Università, dove sono ricercatrice in Sociologia digitale alla Statale di Milano.
Sul revenge porn c'era pochissimo
Mi metto al lavoro: scopro che sul revenge porn non c'è quasi nulla, a parte un report di Amnesty International, con cui avevo già collaborato. E i dati sono allarmanti: una donna su cinque in Italia ha subito qualche forma di molestia online. Esattamente un anno dopo, con le tre associazioni «Insieme in Rete», «I Sentinelli» e «Bossy», lancio #intimitaviolata, una petizione per sensibilizzare sul revenge porn: nel giro di una settimana supera le 110 mila firme. C'è il mio volto su quella campagna. Una scelta difficile: so di poter essere bersagliata da commenti sessisti che infatti non tardano ad arrivare: «Potevi pensarci prima di far la puttana», mi scrivono, giusto per fare un esempio. E poi ricevo attacchi hacker. Ma i commenti positivi battono quelli d'odio: è il segno che stiamo facendo un buon lavoro e che la società è preparata per accoglierlo. La campagna viene appoggiata da Laura Boldrini alla Camera che si mette dietro a una proposta di legge. Anche il Movimento 5 Stelle comincia a interessarsi al tema.
La campagna non si ferma
Lo scorso gennaio firmo, insieme a Valerio Mazzoni, esperto di monitoraggi online, un'inchiesta su Telegram (piattaforma di messaggistica simile a WhatsApp) che viene pubblicata sulla rivista «Wired». Si intitola «Uscite le minorenni», parla di gruppi che riuniscono fino a 60 mila persone, in cui gli utenti si mandano foto anche di ragazzine, tutto il giorno, distribuendone anche i dati personali. Un pozzo nero di illegalità. Il canale più attivo, quello dove passa più roba passibile di reato, è «Canile 2.0» con oltre 2.300 utenti. Poi ci sono altri canali specializzati in modalità spy, come «Video Segreti» che ne ha 42 mila, e «Scatti Segreti» che ne conta quasi 18 mila. Ma materiale pedopornografico e di revenge porn circola spesso anche su chat che tendenzialmente nascono per il porno generico, come i «Malatoni» con 9 mila iscritti e «La Casa del falegname» con oltre 24 mila. Con queste ricerche arrivo a Montecitorio.
Intanto scoppia lo scandalo Sarti
La deputata grillina Giulia Sarti, 32 anni, ex presidente della commissione Giustizia, rischia di diventare la prima vittima di revenge porn a scopo politico. I suoi video privati iniziano a fare il giro del Parlamento. Anche lei trattata come le donne che mi hanno contattata su Facebook, perché non importa l'estrazione sociale, l'età o la provenienza. Così monta la macchina del fango, perché in Italia la gente non sta dalla parte di chi subisce, ma colpevolizza le vittime. Nessuno escluso.
L'aria sta cambiando
Quando alla Camera viene bocciato l'emendamento sul revenge porn, la società civile reagisce con durezza, spingendo poi i deputati a rivotarlo e farlo approvare senza voti contrari. È il 2 aprile scorso: a quattro mesi dalla petizione #intimitaviolata, passa all'unanimità l'emendamento al disegno di legge «Codice rosso» che introduce anche in Italia il reato di revenge porn. Dopo tanto tempo mi sento bene: credo di essere riuscita a trasformare la rabbia e la frustrazione in una battaglia collettiva. E non ho paura perché tante persone combattono assieme a me questa lotta di civiltà.
Non so perché tutto è cominciato
Il lavoro instancabile di oltre un anno ha cambiato la mia vita e quella di tante altre donne sui temi dell'emancipazione femminile e della libertà di gestione del nostro corpo. In molti mi avevano sconsigliato di dare il mio volto a questa campagna, ma ho fatto di testa mia. Strada facendo, in questa battaglia, ho incontrato persone bellissime. E ho capito che stavo facendo la cosa giusta. È stato doloroso all'inizio scoprire i lati oscuri di alcuni amici. Mi hanno insultata, ma non sono tornata sui miei passi. Certo, ho dovuto fare i conti con la disillusione.
Oggi faccio un po' fatica a credere ai rapporti sani tra uomo e donna. Ci sono ferite che hanno bisogno di tempo per rimarginarsi. Loro non credo siano cambiati, avranno ancora quelle chat degradanti. Mi dà forza che il semplice passatempo tra maschi su cui io dovevo stare zitta oggi sia diventato reato.
Elena Filini



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