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Kaleîdos

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Numero 13 del 2019

Titolo: Fare squadra

Autore: Gaia Giorgetti


Articolo:
(da «F» n. 25 del 2019)
Tutti pazzi (maschi compresi) per la Nazionale italiana femminile, che con il suo gioco pulito ha già vinto la partita più importante: quella contro i pregiudizi. E ci insegna che se restiamo unite possiamo cambiare il mondo. Anche fuori dal campo. Grazie Azzurre!
Le abbiamo viste lottare come leonesse, correre, dribblare, volare in aria per mettere la palla in rete. Gol! Stanno conquistando il cuore degli italiani, maschi compresi, che si sono dovuti ricredere davanti alla doppietta di Barbara Bonansea, la bomber della Nazionale femminile italiana che ha segnato due reti proprio nella partita d'esordio contro l'Australia.
Barbara è una gazzella dalle braccia tatuate che ha iniziato a giocare a quattro anni nel cortile di casa, a Pinerolo, nel Torinese, mentre i maschi la prendevano in giro. Ma lei, appoggiata da mamma e papa, ha sempre tenuto duro: avrebbe fatto la calciatrice o la ballerina. È diventata attaccante della Nazionale, tanti sacrifici e allenamenti sin da ragazzina anche a 50 chilometri da casa. Anche Ilaria Mauro, friulana, è una di quelle che da piccina rubava la palla ai fratelli e non mollava il colpo, neppure se la mamma storceva il naso per convincerla a fare un altro sport: a sette anni era nei pulcini con la fascia da capitano, unica femminuccia in una squadra maschile. Quello che unisce le nostre azzurre è la volontà di farcela contro ogni stereotipo, come è successo alla capitana Sara Gama, trentenne di Trieste, madre italiana e padre congolese, che con una laurea in tasca e quattro lingue nel curriculum ha continuato imperterrita a rincorrere la palla per diventare una campionessa e «prendere a calci i pregiudizi», per esempio quelli di chi la insulta sui social perché ha la pelle scura. Ventitré atlete piene di grinta, capaci non solo di attaccare, difendere, parare, ma soprattutto di fare squadra e combattere per un sogno che avevano già da bambine. Sono la prova che unite le donne possono volare, sfidando persino il terreno degli stadi, regno maschile sin dalla notte dei tempi. Quando hanno vinto contro l'Australia hanno contagiato lo stadio ballando la macarena tutte insieme, facendoci tornare in mente che lo sport, oltre che sacrificio, capacità e talento, è anche un grande gioco collettivo. Le Azzurre hanno demolito uno stereotipo che si annida nei bar e nelle case, nelle scuole e negli stadi, dimostrando che l'aria è cambiata, non è un caso che Rai e Sky abbiano investito nei diritti di un Mondiale da un miliardo di spettatori. Perché tanto, improvviso, interesse per il calcio femminile? E in che cosa si differenzia da quello giocato dagli uomini? Ne parliamo con Katia Serra, ex calciatrice, commentatrice Sky e responsabile del calcio femminile dell'Associazione italiana calciatori.
D. Un'Italia che torna a farsi amare grazie alle magnifiche 23. Ci volevano le donne?
R. Il pubblico ha visto un bel calcio, giocato con passione, determinazione, armonia, capacità di fare squadra. Il calcio femminile assomiglia a quello maschile degli anni Ottanta, tutto sacrificio e romanticismo, dove i campioni giocavano per passione, uomini comuni che avevano trasformato in lavoro un sogno. Vedere le Azzurre in campo e vincere ha riacceso nei tifosi, negli sportivi e in tutti gli italiani lo stesso spirito che nasce con le Olimpiadi: tifare per lo sport puro, che veste la maglia italiana.
D. Perché solo adesso?
R. Il calcio femminile è sempre stato bello, ma solo nell'ultimo anno le ragazze hanno avuto modo di dimostrarlo, riuscendo ad avere intorno una vera organizzazione. Grazie alle nostre battaglie, i club professionisti - Milan, Juve, Inter, Fiorentina - hanno aperto alle donne e alle giovanissime, la Federazione ha promosso il campionato, i canali tv hanno acquistato i diritti. Tutto questo non è arrivato per caso, sono anni che ci prepariamo e ci battiamo: siamo solo all'inizio.
D. Giocate in modo diverso dagli uomini? Più squadra e meno sgambetti?
R. Sì, lo stile è diverso, per fisiologia abbiamo meno potenza e velocità, il nostro calcio è collettivo, basato sulla squadra e sull'azione, ma anche su un tipo di gioco meno litigioso, le partite femminili hanno tempi effettivi più lunghi, con poche interruzioni e pochi falli: prevale la tecnica e la tattica sulla parte atletica. Noi giochiamo di più, perdiamo meno tempo in risse tra avversari, abituali tra i colleghi maschi. Il nostro gioco non ha il contorno di scandali e il circo mediatico: è ancora sport, non business.
D. Per la Ct Milena Bertolini il calcio femminile è una missione: ragazze che riaccendono la voglia di un nuovo modo di fare sport, pieno di valori positivi. Un calcio che sa di pulito?
R. Più puro. Nel calcio femminile tutto si concentra sul lavoro e sulla partita, senza distrazioni di soldi, fama, celebrità. Non ci sono star e capricci nelle nostre squadre, il nostro gioco nasce dalla passione, dall'impegno e dal rispetto per noi e per gli altri: staff tecnico, pubblico, avversarie.
D. Le calciatrici sono dilettanti, guadagnano 30.565 euro lordi l'anno, senza contributi e previdenza. Niente a che vedere con gli ingaggi milionari delle star maschili. Sessismo e discriminazione all'ennesima potenza?
R. Certo, la resistenza culturale è enorme, tant'è che le bambine vengono dissuase dal gioco del pallone. Inoltre anche i problemi fiscali ostacolano il cammino di una legge per regolarizzare le atlete donne, dando loro lo status di lavoratrici: costa troppo assumere garantendo stipendi, salari minimi e tutele. Ma stiamo andando avanti: il governo precedente ha istituito per le sportive un fondo maternità, oggi una calciatrice madre gode di un bonus dello Stato; prima invece la società ti dava una bella pacca sulla spalla e tanti saluti.
D. Quante lotte e quanta fatica per arrivare fin qui?
R. Nel 2015 le giocatrici di serie A fecero una specie di sciopero, rifiutandosi di iniziare il campionato per protestare con la Federazione, da lì è iniziato il percorso che ci ha portato sino al Mondiale. Come ricordava lei, per la legge, che risale all'81, le calciatrici di serie A non sono professioniste ma dilettanti senza tutela né garanzie. Alcune sono costrette a fare anche un altro lavoro per vivere, perciò il passaggio al professionismo è una tappa obbligata, continueremo a batterci per questo.
D. Sara Gama, la capitana, è già un'icona, c'è persino la Barbie come lei. Qual è il suo messaggio?
R. È la testimonianza vivente per tutte le bambine italiane: se hanno passione possono diventare campionesse, anche giocando al pallone. E il suo esempio, come quello di tutte le 23 Azzurre, dimostra alle donne che in un mondo a misura d'uomo, se facciamo squadra, possiamo vincere. Perché il futuro si cambia insieme, senza aspettare che siano gli altri a cambiarlo per noi.
Gaia Giorgetti



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