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Kaleîdos

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Numero 10 del 2019

Titolo: Le partigiane che inventarono gli asili moderni

Autore: Isabella Colombo


Articolo:
(da «Donna Moderna» n. 18 del 2019)
Il «modello Reggio Emilia» è il metodo pedagogico delle scuole per l'infanzia che il mondo ci invidia. Ma non tutti sanno che è nato dall'intuizione e dall'impegno di un gruppo di donne forgiate dalla Resistenza. Come 3 di loro raccontano qui
Gli asili di Reggio Emilia sono entrati da tempo nell'immaginario collettivo come sinonimo di efficienza e innovazione. Nanni Moretti li cita nei suoi film, «Newsweek» li ha definiti il sistema d'istruzione più all'avanguardia del mondo e l'università di Harvard ne sta studiando le dinamiche virtuose, compresa la formazione degli insegnanti. Anche in Germania, dove pure i Kindergarten sono un modello applauditissimo e imitatissimo, si sono accorti del «Reggio Emilia approach». Ed è stata proprio una ricercatrice dell'università di Fulda, Sabine Lingenauber, a scoprire che dietro questo fenomeno si cela una seconda straordinaria storia. Una vicenda di empowerment al femminile che arriva dritta dalla Resistenza. Le protagoniste, tutte nate tra il 1925 e il 1941, erano sorelle, figlie e mogli di partigiani, a volte staffette loro stesse. Ione Bartoli, Eletta Bertani, Giacomina Castagnetti, Loretta Giaroni, Lidia Greci, Marta Lusuardi e Carla Maria Nironi, con tante altre amiche ormai scomparse, dopo la guerra sono diventate esponenti dell'associazionismo e della politica, accomunate da un'idea: ricostruire l'Italia attraverso l'istruzione e l'educazione dei figli. «Per questo hanno creato i movimenti femminili, poi i primi asili e infine un vero sistema di istruzione pubblica per l'infanzia» racconta Lingenauber. «Una ricetta che ha forgiato i canoni del «modello Reggio Emilia» così come li conosciamo ancora oggi». Ovvero: partecipazione, uguaglianza e diversità, cooperazione tra genitori, insegnanti, bambini e cittadini.
«Dopo la guerra avevamo un obiettivo preciso: creare un futuro migliore per i nostri figli». «Prima della Liberazione alcune di noi frequentavano l'istituto magistrale: era il periodo del razionamento dei viveri e nei negozi c'erano i cartelli con la scritta Qui è proibito parlare di politica» ricorda Marta Lusuardi, all'inizio staffetta partigiana e poi, dagli anni 70, responsabile amministrativo delle scuole reggiane. «Il sogno di costruire qualcosa lo tenevamo quasi segreto dentro di noi, ne parlavamo in qualche breve e fugace incontro, con la speranza di realizzarlo dopo». Durante la Resistenza lei e le altre ragazze cominciarono a organizzarsi nei Gruppi di difesa della donna e nell'Udi, l'Unione donne italiane, e intanto nascondevano gli uomini dai rastrellamenti tedeschi in cantine e soffitte. «Dalla guerra siamo uscite cambiate: avevamo acquisito padronanza di noi stesse e voglia di fare, avevamo la volontà di tutte le mamme di creare condizioni migliori per i propri figli» racconta Giacomina Castagnetti, altra staffetta partigiana divenuta funzionaria dell'Udi. Le amicizie, nate dalla lotta antifascista, crearono la rete. «E la rete era garanzia a sua volta della forza e perseveranza di ciascuna di loro nel portare avanti i diritti delle donne e dei bambini» spiega la ricercatrice Sabine Lingenauber. Da lì alla nascita dei primi asili innovativi il passo non fu lungo. «Si raccoglievano fondi vendendo polli o facendo feste con premi e sottoscrizioni: il ricavato serviva per l'asilo» continua Giacomina Castagnetti. Chi aveva una formazione come insegnante si offriva volontaria, le contadine portavano il cibo per la mensa, le mamme raccoglievano adesioni. «Genitori e parenti, quando vedevano delle aree dismesse, dicevano: «Qui ci potrebbe venire una scuola, adesso vado dal sindaco e mi informo». L'iniziativa partiva dal basso» aggiunge Marta Lusuardi.
«Fin da subito abbiamo fatto lavorare insieme maestri, architetti e cuochi». Fino al 1963 queste scuole dell'infanzia, dove la necessità di custodia passava in secondo piano rispetto alle esigenze di apprendimento e relazione dei bimbi, furono gestite direttamente dalle associazioni femminili. Poi Marta, Giacomina e le altre donne reggiane, nel frattempo approdate a cariche politiche, riuscirono a farle transitare sotto la gestione pubblica dando il via al movimento nazionale che 5 anni dopo avrebbe partorito la legge sul sistema d'istruzione fino a 6 anni. Non solo. Le prime scuole materne di Reggio furono inserite nel piano urbanistico di ricostruzione e considerate da subito un servizio essenziale per supportare le famiglie in difficoltà e le donne lavoratrici, che allora non erano certo la maggioranza. Gli orari e persino la posizione degli asili dovevano seguire quelle esigenze. «Quando poi nel 1971 - io ero assessore - emanammo la prima legge regionale d'Italia per gli asili nido, partimmo proprio da quelle esperienze» racconta Ione Bartoli, prima nell'Udi e coinvolge oltre poi eletta nell'amministrazione provinciale e regionale. «Ho riunito le cuoche, e nel mondo. l'ufficiale sanitario, il pedagogista, l'architetto, il geometra, l'urbanista, l'insegnante: dovevano pensare e progettare l'asilo insieme, perché servivano tutte le loro figure». Da allora i professionisti che ruotano attorno al «modello Reggio» si sono ispirati a questi principi e a queste donne, esempi di solidarietà e determinazione forgiati dalla guerra e sbocciati nella Resistenza. «I loro racconti non mi hanno solo permesso di documentare in maniera scientifica la nascita di un sistema unico nel suo genere» conclude Sabine Lingenauber. «Ma anche di dimostrare a docenti ed educatori che si può lottare per migliorare la propria condizione senza usare le armi».
Isabella Colombo



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