Numero 9 del 2019
Titolo: Miriam Camerini: «Sarò la prima donna rabbino d'Italia»
Autore: Giovanni Ferrò
Articolo:
(da «Donna Moderna» n. 18-2019)
Alla German Colony, con le sue villette in pietra bianca tutte uguali, fervono i preparativi per la Pasqua ebraica, che quest'anno si celebra tra il 20 e il 27 aprile. Uomini e donne si affannano con le sporte della spesa per le cene rituali, i ragazzi in vacanza bighellonano per strada, i parenti dall'estero arrivano con grandi valigie al seguito. È in questo quartiere di Gerusalemme dove vivono gli intellettuali di sinistra più osservanti dei precetti religiosi che sorge il Beit Midrash Har'el, la prima yeshivah ortodossa ad ammettere le donne ai corsi per diventare rabbini. Ed è qui che da ottobre sta studiando la 36enne Miriam Camerini, candidata a diventare, suo malgrado, oggetto di dibattito. Nell'ebraismo ortodosso, cui aderisce la quasi totalità dei fedeli in Italia, le donne non sono ammesse al rabbinato. Ma Miriam, vestito a fiori in sella alla fida bicicletta, non se ne fa un cruccio: «In realtà la Torah, cioè i primi 5 libri della Bibbia, e il Talmud, ovvero la letteratura rabbinica a commento del testo sacro, non hanno mai detto né sì né no... Non si è fatto in 2.000 anni, ma nemmeno è stato proibito esplicitamente. E, secondo una logica tipicamente ebraica, se una cosà non è esclusa, allora è ammessa».
Miriam non si è mai lasciata fermare dal «si è sempre fatto così», dalle consuetudini, dai pregiudizi. «Vengo da una famiglia osservante. Il mio bisnonno era un rabbino e in casa nostra il rispetto dei precetti è sempre andato di pari passo con lo studio della Legge. L'abitudine di interrogarmi sulla Torah l'ho succhiata con il latte materno». Nata a Gerusalemme da una famiglia di ebrei italiani ma cresciuta a Milano, «scandalosamente» single per la sua età stando ai canoni della sua cultura, appartiene a due mondi. E non solo per via del doppio passaporto, italiano e israeliano. «A Milano ho studiato Lettere, mi sono appassionata alla regia e mi sono laureata in Storia del teatro» racconta. «La voglia di conoscere meglio la mia fede, però, non si è mai assopita. Così a 23 anni sono tornata in Israele per approfondire lo studio del Talmud». Rientrata in Italia dopo 4 anni a Gerusalemme, si è buttata a capofitto nella recitazione, lavorando con attori e registi di fama internazionale. E le sue passioni, quella per il palcoscenico e quella per la cultura ebraica, si sono mescolate, dando vita a spettacoli come Golem, Caffè Odessa, Il mare in valigia e partecipando alla produzione di manifestazioni cittadine come Jewish and the City. Intanto sempre più persone hanno iniziato a invitarla a incontri e convegni per spiegare la sua fede e le sue tradizioni. «Do spesso lezioni a ragazze ebree che si preparano al Bat Mitzvah, la cerimonia con cui si celebra il raggiungimento della maturità religiosa. E mi accorgo che ciò che racconto le coinvolge, nonostante si tratti di temi alieni agli adolescenti. Sono stata chiamata in monasteri e moschee e, anche lì, mi sono accorta di un grande interesse e rispetto per quello di cui parlavo. Insomma, con il tempo ho visto che la gente mi riconosceva un ruolo e un valore come insegnante. Così, un po' d'istinto, mi sono detta: perché non diventare rabbino?».
Nell'ebraismo ortodosso, però, i rabbini sono soltanto uomini. E non è l'unica discriminazione. «Si dice sempre che la donna abbia un ruolo fondamentale, visto che la trasmissione dell'appartenenza ebraica avviene per discendenza matrilinea» commenta Miriam. «Ma questa affermazione è una via di mezzo tra un contentino e un'illusione. L'atteggiamento di fondo è tradizionalmente maschilista: «Mettiamola sul piedistallo, purché lei non pretenda di essere come noi maschi». Gli esempi sono tanti. La moglie non deve mostrare certe parti del corpo come i capelli, che è costretta a coprire con parrucche o foulard. Non può divorziare se il marito non è d'accordo e non le dà l'atto formale di ripudio. Le donne non possono dare testimonianza, non sono considerate valide neanche come testimoni di nozze. Non possono cantare in pubblico né officiare le preghiere. In Sinagoga hanno uno spazio separato, lontano, nascosto, così che persino nel culto si sentono ospiti passive».
Fra 3 anni, al termine del corso a Gerusalemme, Miriam sarà a tutti gli effetti una donna rabbino. La prima italiana e ortodossa. Che significa? «Si tratta di una persona che ha fatto degli studi certificati che gli conferiscono l'autorità di maestro della Legge e della vita rituale quotidiana. Diversamente dal prete cattolico, però, non ha un ruolo fondamentale ed esclusivo nella liturgia. Il rabbinato non è una casta sacerdotale» chiarisce Miriam. Il futuro è ancora incerto: sicuramente continuerà a fare teatro, visto che «essere rabbino, per me, non è stata una scelta dettata dalla voglia di cambiare mestiere. Semmai, la mia professione sarà arricchita dai miei studi». Il suo ruolo e la sua autorità, però, potrebbero non essere riconosciuti da gran parte del mondo ortodosso. «Sì, il problema è aperto. Ma la Halachà, cioè la tradizione normativa ebraica, ha già in sé i germi del cambiamento. Il termine stesso significa cammino. Sono fiduciosa dunque che, con il tempo, si capirà che l'esclusione delle donne dal rabbinato è frutto di una cultura e una mentalità figlie del passato».
Giovanni Ferrò