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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere dei Ciechi

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Numero 1 del 2017

Titolo: IPOVISIONE- Definirsi ipovedente tra vedere e non vedere

Autore: Zaira Raiola


Articolo:
L'OMS definiva vent'anni fa un soggetto cieco quando la sua acuità visiva corretta nell'occhio migliore è inferiore ad 1/20, mentre definiva ipovedente un soggetto quando la sua acuità visiva è compresa tra 3/10 e 1/20.
In Italia la definizione delle minorazioni visive è riportata nella L. 382/70 e nella più recente L. 138/2001. Quest'ultima ha integrato l'elemento del campo visivo nella definizione delle "varie forme di minorazioni visive meritevoli di riconoscimento giuridico, allo scopo di disciplinare adeguatamente la quantificazione dell'ipovisione e della cecità secondo i parametri accertati dalla medicina oculistica internazionale" (art.1 L. 138/2001).
La normativa italiana dovendo "quantificare" l'ipovisione rivela una evidente incongruenza tra la classificazione di natura tecnico-scientifica e la classificazione giuridica in materia di prestazioni economiche e sociali in campo assistenziale. Ne consegue uno scenario di confusione su cui si costruiscono campagne mediatiche tristemente titolate "falsi ciechi".
Del tema si sono occupati illustri relatori sia in questa sede che in altre ed è per questo che è mia intenzione guardare al problema da una prospettiva differente: la prospettiva dell'ipovedente.
Desidero parlare della percezione che un soggetto ipovedente ha del proprio residuo visivo e soprattutto della reale consapevolezza che la patologia visiva di cui è affetto invalida di fatto la propria vita.
In altre parole: come si autodefinisce ipovedente un soggetto che giuridicamente appartiene ad una delle categorie invalidanti (ipovedenti gravi, medi o lievi)?
Circa il 95% delle persone che ho conosciuto, compresi gli ipovedenti stessi, definiscono l'ipovisione come un "vedere poco". Il cursore poi è molto mobile in relazione alle circostanze: un ipovedente con malattia congenita dirà di vedere; un adulto oppure un anziano che sta gradualmente perdendo la vista dirà di essere "praticamente cieco".
Ho sempre pensato che il prefisso "ipo" fosse fuorviante nella definizione di ipovisione. Se da un punto di vista clinico il vedere "poco" può essere adeguato rispetto al valore quantitativo delle righe della tavola optometrica oppure dei gradi del campo visivo, il valore "poco" diventa privo di significato, riduttivo e fuorviante se considerato in relazione alla vita quotidiana di una persona ipovedente.
Quando incontro una famiglia in una consulenza tiflologica e capisco che quella definizione di "vedere poco" semplifica troppo la condizione reale del ragazzo con handicap visivo, cerco di provare empiricamente a dare valore qualitativo all'aggettivo "poco". La modalità più facile è chiedere la descrizione della stanza, oppure di un quadro esposto nella stanza. Le risposte sono davvero diversificate tra gli ipovedenti se hanno patologie differenti ma anche se sono affetti dalla stessa patologia. Le risposte più suggestive tuttavia restano quelle date dal ragazzo e subito dopo dal genitore che lo accompagna. Un quadro che ritrae, ad esempio, una natura morta verrà descritto dal ragazzo come macchie di colore, più o meno conformi a quelle reali, e gli oggetti ritratti saranno descritti per deduzione, similitudini ed ipotesi del tipo: "potrebbe essere un bicchiere..., potrebbe essere un piatto..., potrebbe essere una mela...". Lo stesso quadro descritto dai genitori vedenti risulterà arricchito di chiarezza e particolarità: in prima linea sono ritratti una coppa di porcellana bianca ed un piatto di porcellana con una mela, dietro il piattino è posta una brocca colma d'acqua e alla sua sinistra una grande coppa traboccante di frutta, l'uva, la mela, due pere e delle prugne... La quantità di cui si parla in ambito clinico e giuridico si traduce in realtà che viene persa, così come le informazioni visive che si affidano a rappresentazioni mentali della realtà che spesso non corrispondono alla realtà stessa. Le immagini indefinite di un quadro espressionista astratto evocano emozioni, ricordi, fantasie e questa è una delle caratteristiche che fanno apprezzare l'astrattismo, l'impressionismo ed altre espressioni pittoriche simili. Nella realtà però la visione indefinita è un problema.
Non vedere oggetti reali significa essere ciechi rispetto a parte della realtà, significa perdere la realtà visiva, significa esporsi a rischi; vedere creativamente la realtà inoltre significa costruirsi una immagine mentale irreale e fuorviante: significa rispondere in modo spesso inadeguato agli stimoli visivi della realtà.
Gli oggetti che un ipovedente non vede ritratti su un quadro si traducono in informazioni che vengono perse e purtroppo molte di queste risultano essere informazioni importanti. Spesso gli esperti definiscono "funzionalità visiva" la capacità che l'ipovedente ha di scansionare con lo sguardo la realtà, così come scansiona un testo scritto oppure le lettere della tavola optometrica. Condivido la valorizzazione di questa capacità e tuttavia non concordo sulla sua reale funzionalità. L'ipovedente avrà certamente il tempo di scansionare con lo sguardo un testo scritto e la tavola optometrica ma troppo spesso non avrà il tempo di scansionare una strada che sta attraversando con autoveicoli, persone ed oggetti in rapido movimento. Dovrà fare una selezione del mondo che lo circonda ovvero sceglierà istintivamente cosa guardare e cosa non vedere: potrà "guardare", ad esempio, il semaforo durante un attraversamento e al tempo stesso "non vedere" le persone e i veicoli che potrebbero investirlo dal lato oppure non vedere un ostacolo che ha davanti a sé ma in posizione più bassa rispetto al suo centro che è in quel momento il semaforo. Quando spingo il passeggino con il mio bambino riesco ad evitare le automobili, spesso anche i pali ma mi risulta davvero difficile scansare le persone che passeggiano distrattamente ed imprevedibilmente, guardando i negozi, gli uccellini nel cielo oppure parlando al telefono!
D'altro canto "immaginare di vedere" è altrettanto pericoloso. Gli ipovedenti troppo spesso si affidano ad una rappresentazione molto fantasiosa della realtà. Solo per fare un esempio vi racconterò di quella volta che ero convinta di passeggiare su di un marciapiede (agevolata anche dal bordo bianco che solitamente definisce lo spigolo di molti marciapiedi nel centro di Roma) e desiderosa di superare un gruppo di persone che ostacolava il passaggio, mi sono spostata da un lato scendendo dal marciapiede. Purtroppo la mia visione monoculare mi priva della visione prospettica e quindi della profondità, da cui l'errore nella pre-visione del movimento: non mi ero accorta che il marciapiede costeggiava una strada in pendenza e quindi il dislivello non era di 15/18 cm come al solito ma era diventato di circa un metro e la caduta è stata inevitabile!
Esistono numerose malattie visive, che coinvolgono parti differenti dell'occhio con funzionalità visive differenti: chi vede sfocato, chi vede scie degli oggetti, chi vede puntini, chi vede con alterazioni cromatiche, chi vede zone nere e chi zone colorate ma pur sempre cieche, chi vede distorto, chi viene abbagliato dalla luce, chi viene accecato dall'oscurità, e gli esempi possono moltiplicarsi. Inoltre molte patologie visive comportano deficit funzionali di differenti parti dell'occhio e quindi la visione che ne deriva è aggravata e complessa.
Un ipovedente non vede poco ma vede in modo completamente diverso e spesso inimmaginabile alla mente di un vedente.
L'ipovedente si deve adattare agli infiniti cambiamenti della propria percezione visiva della realtà: di giorno in giorno, di ora in ora, di luogo in luogo, di luce in luce.
La prima qualità di cui dovrebbe dotarsi un ipovedente è l'elasticità, la disponibilità al cambiamento, la capacità di problem solving e tanta, tanta pazienza.
Vedere in modo così incerto può determinare in casi estremi immobilismo, depressione e psico-patologie. Fortunatamente questi sono casi rari.
Più frequente invece è l'insicurezza che diventa insicurezza emotiva e relazionale.
Ogni individuo necessita, per un sano sviluppo, di elementi costanti, di abitudini, di prevedibilità: tutto questo sin da piccoli crea una personalità SICURA e fiduciosa. La Montessori non si stancava mai di ribadire l'importanza della prevedibilità del contesto per la crescita del bambino.
Il bambino ipovedente cresce invece in un mondo in continua trasformazione, in cui davvero poco è prevedibile. Il bambino ipovedente cresce in un contesto in cui è molto difficile valutare la propria autoefficacia, in un contesto in cui è difficile valutare il bisogno e quindi la possibilità di chiedere aiuto e di riceverlo. Le persone affettivamente più vicine e quelle sconosciute si sentono incapaci di aiutare gli ipovedenti per l'impossibilità di prevedere il loro bisogno di aiuto: si finisce per aiutare troppo o troppo poco.
Nonostante ciò la maggior parte degli ipovedenti reagiscono alle difficoltà con risolutezza e sono orgogliosi di mostrare gli enormi traguardi che raggiungono con umiltà e naturalezza.
In termini di capacità infatti le persone ipovedenti si percepiscono e vengono percepite come capaci di fare quasi tutto. L'orgoglio degli ipovedenti spesso sottolinea come molti vedenti fanno molto meno: questo è vero e potremmo confermarlo con infiniti esempi; la differenza tuttavia consiste nella impossibilità di fare alcune cose da parte dell'ipovedente in contrapposizione alla volontà di non fare quelle stesse cose da parte della persona vedente.
Io penso che se da un lato è importante dare valore alle grandi capacità adattive degli ipovedenti, dall'altro è importante dare dignità e non sottovalutare l'elemento della fatica.
L'ipovedente si adatta a fare molto ma questo ha un enorme impatto economico in termini di investimento emotivo, attentivo, relazionale e persino monetario e soprattutto di tempo.
Tutto questo impegno e disagio è riconosciuto dalla L. 104/1992 ai portatori di handicap grave ma purtroppo molte commissioni sanitarie non riconoscono la condizione di gravità al disabile ipovedente; così come le commissioni che valutano la percentuale di invalidità, attenendosi a tabelle ministeriali obsolete attribuiscono valori che non consentono "alcuna prestazione economica e sociale in campo assistenziale" (art. 1 L. 138/2001).
L'ipovisione non può ridursi, quindi, in una definizione quantitativa: l'ipovisione è una condizione fisica, emozionale e relazionale di grande complessità. È troppo facile sottodimensionare il problema, sia per chi lo vive sia per chi ci convive. IPOVISIONE non significa vedere poco. Ipovisione significa vedere "troppo poco": troppo poco per essere interpretati come dei mistificatori dei ciechi e dei millantatori dei vedenti, troppo poco per essere lasciati soli e troppo poco per essere subordinati alle casse dello Stato.



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