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Il Progresso

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Numero 6 del 2015

Titolo: Sport- «Ho toccato il fondo, riparto da lì»

Autore: Elisa Chiari


Articolo:
(da «Famiglia Cristiana» n. 21-2015)
Lo sguardo chiaro e inquieto di Alex Schwazer scarta di lato, perdendosi istanti nel vuoto, mentre parla. Poi torna a puntare dritto. Sono passati tre anni, l'ultima volta Alex era il campione olimpico della 50 km di marcia di Pechino 2008 in procinto di partire per Londra 2012. Ai lettori di Famiglia Cristiana diceva, alludendo alle delusioni dei Mondiali di Berlino 2009 e degli Europei di Barcellona 2010: «Ho avuto momenti difficili, ora mi sento più forte come persona». Poche settimane dopo è finita come sanno tutti.
Da lì lo tsunami di una vita: la positività al doping, le lacrime pubbliche, l'ammissione - senza scuse ma con iniziali reticenze - la gogna, la credibilità in macerie. La squalifica sportiva, anni, ancora in corso. Il processo penale concluso con il patteggiamento. E ora la sfida di ricominciare, dal fondo, con uno spirito tutto diverso.
Alex, come faranno i lettori a crederle ancora?
«Non sono il campione olimpico con l'Olimpiade tra due mesi, l'uomo ora non è cosa sola con l'atleta. Allora, molto superficialmente, pensavo che stare bene fosse sinonimo di andare forte, perché contava il risultato e su quello si viene misurati. Io oggi sono squalificato, non faccio gare da tre anni, neanche so quando potrò tornarci. Ma ora posso dire che sto meglio perché provo piacere ad allenarmi, mentre c'è stato un momento in cui avevo nausea dello sport. Quando cadi, vedi sparire il 95% delle persone che frequentavi, la tua vita va a pezzi. Mica sono andato dallo psicanalista per capire come tornare in gara, ma per sapere che cosa non andava in me come uomo. Io adesso non sono spinto da nessuno, nessuno ha interesse nei miei risultati. Sono libero».
A Barcellona, nel 2010, urlò a suo padre: «Mai più gare». Perché non ha smesso allora?
«Ci vuol coraggio da campione olimpico per ammettere: sono distrutto, provo nausea. Nessuno avrebbe capito, ti dicono: «È una fase». Io a 25 anni il coraggio non l'ho avuto. Oggi mi dico che sono troppo sensibile per essere campione, di quelli sempre pronti all'appuntamento. E, infatti, prima di Londra, con la pressione addosso, dopato con la paura del controllo, mentre chi mi stava accanto (Carolina Kostner, ndr) nulla sapeva, sono crollato».
Quando ha deciso di doparsi come si è sentito?
«Non accade da un giorno all'altro, è un percorso graduale. Provavo rabbia, mi allenavo più che nel 2008 e rimediavo brutte figure. Quando sono arrivato a doparmi, nel 2011, ai rari momenti in cui pensavo: «Che fai? Che senso ha?» seguivano momenti di rabbia in cui mi dicevo: «Questo ho deciso, questo faccio». Pensavo a chi lo faceva e allora aveva successo (ora molti russi vincenti all'epoca sono squalificati, ndr). Sono andato avanti così, fino a ridosso dell'Olimpiade. Stavo male, ora so che erano effetti collaterali del farmaco, ma non ho smesso».
Ha ammesso subito la colpa, dicendo di aver fatto tutto da solo. Ora, tre anni dopo, alla Procura di Bolzano ha detto che in Fidal c'era chi sapeva delle sue frequentazioni con Michele Ferrari. Perché attendere tanto?
«Tre anni fa pensavo: io mi sono organizzato, io mi sono trovato i prodotti, io li ho acquistati, nessuno me li ha messi nel succo di frutta, nessuno mi ha detto prendi questo, prendi quello. Mi dicevo: se lo fai è responsabilità tua. E infatti lo era, ma ora mi dico anche: c'era chi sapeva (il tema è oggetto di un processo per favoreggiamento in corso a Bolzano e al vaglio della Procura sportiva, ndr) che incontravo Ferrari, medico inibito dal Coni. Perché nessuno mi ha convocato? Quando io ho chiesto di preparare da solo in Germania il mese prima dell'Olimpiade di Londra, perché nessuno ha trovato da ridire? Così non se ne esce».
Ora ha Libera e Donati al suo fianco: si sente responsabile?
«Nei loro confronti sì, sono qui perché loro ci mettono la faccia. Quando vedevo rientrare atleti dopati pensavo: «Ha barato una volta, lo farà di nuovo». Per questo voglio rientrare con una trasparenza di controlli che dovrebbe essere per tutti una sicurezza».
Ha mai pensato che il doping avrebbe potuto gettare ombre su tutte le cose che ha fatto prima?
«Mai, al punto in cui sono arrivato non ti fai più domande, non pensi alle persone che hai intorno».
Che cosa ha imparato della vita nel vuoto che è venuto dopo?
«Che lo sport è un'opportunità, che la gente ha obiettivi molto più bassi e problemi molto più seri. Basta guardare la vita vera. Ma quando vivi nello sport come ho fatto io perdi il senso di che cosa vuol dire vivere, stai in una bolla e si fa di tutto perché ci resti. Conta il risultato. Io, che non sono studente modello, oggi direi agli atleti: «Fate un esame a semestre, ma fatelo»».
Che cosa le farà dire che questo ritorno ha avuto senso?
«In parte lo ha già: mi piace di nuovo marciare. C'è stato un momento in cui ero campione olimpico ed ero così nauseato dall'allenamento che pensavo: «Come sarebbe bello fare il cameriere». Oggi voglio vivere come una persona normale, che ha la fortuna di esser dotata per lo sport. Non voglio più sentirmi crollare il mondo se per una settimana faccio 10 km in meno. Spero solo di non cadere più nella depressione vera, che ti impedisce di fare tutto: il mio momento peggiore».
Non la mette a disagio il fatto che la manager storica di Carolina Kostner lavori oggi con lei e non più con Carolina? In fondo è stato lei a inguaiarla...
«Carolina è nei guai perché ce l'ho messa io. Non c'è dubbio. Ma è stata Carolina a chiedere: «O lui o me». Si poteva continuare con la stessa manager, che c'è stata sempre per entrambi, senza avere contatti tra noi».



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