Numero 3 del 2015
Titolo: RUBRICHE- A lume di legge
Autore: a cura di Paolo Colombo
Articolo:
La Corte Ue, riconosce l'obesità come handicap, maggiori tutele per i lavoratori
L'obesità può costituire un handicap per chi ne soffre e non deve dar luogo a discriminazioni sul lavoro. Sebbene nessun principio generale del diritto dell'Unione europea preveda un principio di non discriminazione in ragione dell'obesità in quanto tale, questa rientra nella nozione di handicap (e sono vietate le discriminazioni fondate su handicap) se impedisce la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale sulla base di uguaglianza con altri lavoratori. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea con sentenza.
Di conseguenza, il lavoratore obeso ha diritto alla tutela offerta dalla direttiva 2000/78/Ce sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale direttiva dell'Unione europea stabilisce il quadro generale per la lotta alle discriminazioni in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
E in forza di tale direttiva sono vietate, in materia di occupazione, le discriminazioni fondate sulla religione, le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali.
La Corte di Giustizia dell'Unione europea ha per la prima volta qualificato come handicap l'obesità. La pronuncia, depositata il 18 dicembre 2014, (causa C-354/13), è stata provocata dal rinvio pregiudiziale promosso dai giudici danesi a seguito del ricorso di un dipendente dell'amministrazione pubblica impiegato come babysitter.
Il dipendente era afflitto da obesità, secondo gli standard fissati dall'Organizzazione mondiale della sanità. L'amministrazione danese, spinta, all'apparenza, dalla diminuzione del numero di bambini da seguire, aveva deciso il licenziamento del ricorrente secondo il quale, invece, la decisione era dipesa dalla sua obesità. Di qui l'azione giudiziaria e il rinvio dei giudici alla Corte Ue prima di decidere se il ricorrente fosse stato vittima di una discriminazione fondata sull'obesità.
Per gli eurogiudici, sebbene la direttiva 2000/78, non menzioni direttamente l'obesità, questa patologia può essere inclusa nella nozione di handicap, in quanto per handicap s'intende non solo un'impossibilità di esercitare un'attività professionale, "ma altresì un ostacolo a svolgere una simile attività".
L'obesità - osserva la Corte di Giustizia - non è, in via generale, un handicap nel senso specificato nella direttiva che si riferisce a "una limitazione risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature", in grado di ostacolare "la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale, su base di uguaglianza con altri lavoratori". Ma, in determinate circostanze, essa comunque comporta delle limitazioni, che di fatto ostacolano la vita professionale di chi ne è affetto.
Una situazione che si verifica nei casi in cui l'obesità è di lunga durata o se, ad esempio, il lavoratore ha una mobilità ridotta o patologie che gli impediscono di lavorare o fanno sorgere difficoltà nella realizzazione dei suoi compiti professionali.
L'obesità del babysitter era di lungo periodo e, quindi, se il giudice nazionale ravvisa una limitazione nella sua vita professionale deve considerare l'obesità come handicap e applicare le garanzie offerte dalla direttiva Ue sopra richiamata.
Va detto inoltre che, secondo la Corte Ue, i giudici nazionali devono partire dal presupposto che spetta alla parte convenuta e, quindi, al datore di lavoro, dimostrare che non si è realizzata alcuna violazione del principio della parità di trattamento.
Rilevante poi l'esclusione dell'esistenza di un principio generale del diritto Ue di non discriminazione a motivo dell'obesità.
Amministrazione di sostegno o interdizione? Ecco i criteri di scelta precisati in una recente sentenza del Tribunale di Vercelli
La scelta tra amministrazione di sostegno e interdizione non si basa solo sul grado d'infermità del soggetto incapace, ma il giudice deve compiere una valutazione globale e complessiva della situazione personale e del patrimonio da gestire del soggetto.
Lo ha precisato il Tribunale di Vercelli con sentenza del 31 ottobre 2014, n. 142. Nell'interessante sentenza si dà conto della giurisprudenza di legittimità e di merito dei vari Tribunali che si trovano a dover utilizzare i criteri messi a disposizione della legge per stabilire la giusta misura di protezione da riconoscere all'interessato.
Il caso posto all'esame del Giudice piemontese, ha inizio con la richiesta della madre, già amministratore di sostegno del figlio, di pronunciare l'interdizione del proprio figlio poiché la misura già disposta era diventata insufficiente a causa del peggioramento delle condizioni di salute del figlio, affetto da encefalopatia epilettica con ritardo psicomotorio grave.
L'amministrazione di sostegno inizialmente concessa era stata giudicata misura sufficiente sia in considerazione delle scarse esigenze gestionali da soddisfare, sia per il fatto che il beneficiario vivesse in un ambiente circoscritto e protetto che non lo esponeva al pericolo di compiere atti pregiudizievoli. La madre, in qualità di amministratore di sostegno, avrebbe dovuto esercitare i poteri cd. sostitutivi (ex art. 405, comma 5, n. 3, c.c.) a livello patrimoniale: compiere gli atti di straordinaria e di ordinaria amministrazione e gli ulteriori atti relativi alla presentazione di domande di assistenza, anche sanitaria e di sussidi.
Nel giudizio di interdizione, successivamente promosso, il nuovo esame peritale confermava l'esigenza di una forma di protezione tenuto conto della generale condizione di non autosufficienza del soggetto, dovuta al grado medio-grave del ritardo mentale.
La perizia evidenziava però anche che le cure quotidiane presso il centro diurno e "il buon accudimento e le attenzioni pedagogiche della madre di tutti questi anni avevano evitato ulteriori regressioni a livello psico-comportamentale". Di conseguenza, a livello medico, non si poteva configurare un peggioramento della situazione preesistente.
Tenuto conto di ciò, il Tribunale di Vercelli rammenta che la scelta dell'amministrazione di sostegno non deve essere semplicemente basata sul grado d'infermità o d'impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto, ma piuttosto sulla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle sue esigenze, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Cass. Civ. Sez. I, sentenza 22 aprile 2009, n. 9628 e Cass. Civ. Sez. I, sentenza 26 ottobre 2011, n. 22332).
In particolare l'amministrazione di sostegno sarà preferibile in tutti quei casi in cui sia necessaria "un'attività di tutela minima, in relazione, tra le altre cose, alla scarsa consistenza del patrimonio del soggetto debole, alla semplicità delle operazioni da svolgere, e all'attitudine del beneficiario a non porre in discussione i risultati dell'attività svolta nel suo interesse".
Nella sentenza si richiama anche ad una recentissima pronuncia della Cassazione, con la quale è stata confermata la misura dell'interdizione ove l'elevata consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare, collegata con la gravità e l'irreversibilità delle condizioni fisio-psichiche del soggetto, imponeva l'adozione della misura interdittiva proprio per la gestione e conservazione del patrimonio. In sostanza, è corretto non basare la scelta dell'interdizione sul solo grado di infermità del soggetto incapace, ma occorre procedere ad un'attenta ricostruzione della particolare situazione fisica e psichica dell'incapace, rapportandola con la complessità delle decisioni, anche quotidiane, da prendere per la gestione del suo patrimonio personale.
Il Giudice, nello scegliere tra l'interdizione e l'amministratore di sostegno, dovrà basarsi sul criterio contenuto nei primi due commi dell'art. 410 c.c., che impongono all'amministratore di sostegno, da un lato, di tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, dall'altro, di informare tempestivamente il beneficiario sugli atti da compiere, e il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso. Vi dovrà essere nella pratica un sistema continuo di scambio tra i soggetti dell'amministrazione di sostegno - beneficiario, amministratore e Giudice tutelare - al fine di dirimere i contrasti eventualmente insorti. Ciò all'insegna della logica collaborativa che ispira l'istituto dell'amministrazione di sostegno rispetto a quella propriamente "sostitutiva" dell'interdizione.
Nel caso specifico, la ricorrente lamentava che come amministratore di sostegno non avrebbe avuto il potere di prestare un consenso informato alle cure, in caso di accertamenti o trattamenti sanitari, sostituendosi al soggetto incapace, come invece avrebbe potuto fare il tutore ai sensi dell'art. 357 c.c.
Secondo i giudici, però, tale potere, pur se non espressamente previsto dall'art. 411 c.c., è insito nelle disposizioni sull'amministrazione di sostegno che è istituto finalizzato alla cura della persona del beneficiario in ogni suo aspetto, patrimoniale e personale, come si desume dal tenore letterale degli artt. 405, comma 4, e 408, comma 1, c.c. (decreto 30 aprile 2012, Giudice tutelare Varese).
Pertanto il Tribunale adito, ha ampliato gli originari poteri conferiti, attribuendo all'amministratore in carica, salva diversa determinazione del Giudice tutelare, il potere di prestare, in nome e per conto del beneficiario, il consenso e/o il dissenso ad intraprendere i necessari accertamenti, cure, e trattamenti sanitari, in considerazione dell'impossibilità, anche parziale, del beneficiario a prestare tale consenso. Precisando però che questo potere è limitato agli accertamenti, ai trattamenti ed alle terapie routinarie, intendendosi quelli non invasivi e/o che non comportino periodi di lunga degenza in ospedale. Nel caso di operazioni chirurgiche, cicli terapici quali dialisi, chemioterapia ecc., l'amministratore di sostegno dovrà coinvolgere il Giudice Tutelare anche se non a fini autorizzativi, ma informativi.
Inoltre nell'ottica collaborativa, il consenso e/o il dissenso agli accertamenti ed ai trattamenti terapeutici dovrà essere prestato con il beneficiario, e non al posto dello stesso, dovendo l'amministratore tenere presente per quanto possibile i desideri e le aspirazioni del beneficiario.
La Giustizia Amministrativa condiziona il diritto allo studio dei disabili alla disponibilità economica
La Giustizia Amministrativa mette in discussione il diritto allo studio dei disabili con una clamorosa inversione di tendenza rispetto agli orientamenti giurisprudenziali degli ultimi anni che si rifacevano in toto ai principi costituzionali della consulta.
Le due sentenze del Tar Sicilia e del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana di fatto sovvertono il principio del diritto allo studio per i disabili. Giustificare la riduzione delle ore di sostegno per ragioni di bilancio equivale in sostanza a mettere in discussione lo stesso principio del diritto allo studio, che si riteneva definitivamente sancito dalla Corte Costituzionale.
Infatti prima il Tar Sicilia con sentenza n. 369 del 2014, nega il risarcimento del danno patrimoniale alle famiglie dei disabili a cui il sostegno scolastico era stato negato. Poi il Consiglio di Giustizia Amministrativa (CGA) della Regione Siciliana con sentenza n. 617 del 17 novembre 2014 che confermando l'indirizzo del TAR non solo nega il diritto al risarcimento per danni, ma mette in dubbio anche l'assolutezza del diritto costituzionale all'istruzione.
Nella Sentenza del CGA della Sicilia si legge "come periodicamente ribadito anche dalla giurisprudenza, che la 'educazione ed istruzione', piuttosto che la 'salute' quale 'diritto fondamentale dell'individuo' […], specie se riferiti […] alla cura dei minori handicappati, costituiscono altrettanti diritti personali e sociali oggetto di tutela rafforzata, è anche vero che la tutela c.d. 'incondizionata' della salute, ribadita dal primo Giudice per concedere il sostegno nella misura richiesta dai genitori – depurata dalla forte caratura ideologica che ne ha accompagnato la sua rappresentazione politica e giuridica (anche nella cit. sentenza n. 80/2010 della Corte Costituzionale), oltre che mai realizzata nei fatti, sia in termini di prevenzione che di cura – non può per altro verso non subire oscillazioni, specialmente in tempi di crisi finanziaria acuta, come accade per la stagione attuale di finanza pubblica, che inevitabilmente si riverberano sulle scelte dell'Amministrazione, ogni qualvolta questa è chiamata a dover ponderarne la misura".
Anche omettendo di valutare le gravissime considerazioni che la CGA formula nei riguardi della Corte costituzionale ("forte caratura ideologica che ne ha accompagnato la sua rappresentazione politica e giuridica"), molto grave è che l'organo giudicante nella sostanza dichiara alcuni diritti non "indiscutibili", ma condizionati nella loro esigibilità dalla crisi finanziaria. Aprendo concretamente la possibilità alle amministrazioni di limitare il sostegno scolastico a causa della crisi finanziaria.
Inoltre quando scrive: "[…] l'assistenza pubblica ai minori, in tutte le forme con cui questa può essere prestata, è da reputare in via di principio 'sussidiaria', o, comunque, non sostitutiva rispetto agli obblighi di assistenza ed educazione che prioritariamente incombono sui genitori che su di essi esercitano la potestà" di fatto attribuisce alle famiglie il carico materiale ed economico del sostegno scolastico ritenendo che lo Stato se ne debba invece occupare in modo sussidiario.
Certamente tali sentenze avranno non poche ripercussioni, in una fase di delicato equilibrio finanziario e a molti studenti disabili sarà negato il diritto allo studio con una sensibile riduzione delle ore di sostegno perché condizionate alle ridotte disponibilità economiche delle P.A.