1. Premessa
Con questa breve scheda non intendiamo, nel modo piu' assoluto,
impartire insegnamenti precisi o, ancor meno, fornire soluzioni certe ad ogni
problema; nostra intenzione e', invece, dare alcune indicazioni e dei suggerimenti
atti a meglio definire i compiti e, se possibile, agevolare il lavoro dei
diversi comitati regionali e provinciali dei giovani.
Va precisato che, volutamente, ci asterremo dal trattare, se non marginalmente,
in questa sede, i problemi relativi all'istruzione ed al collocamento che,
d'altro canto, esulano dal nostro ambito operativo. Tuttavia, consci della
grande importanza che tali tematiche rivestono, invitiamo i coordinatori dei
comitati regionali e provinciali a prendere visione delle schede formative
messe eventualmente a punto dalle apposite commissioni tecniche. Desideriamo
inoltre qui ricordare che, a livello provinciale, regionale e nazionale, esistono
dei responsabili di settore (responsabile per l'istruzione, il lavoro, i problemi
delle donne, sport e tempo libero ecc.) ai quali i componenti i diversi comitati
possono rivolgersi per consulenze o forme di collaborazione.
2. Alcune considerazioni di carattere generale
Vi e' chi definisce gli handicappati anormali, attribuendo al termine anormale esclusivamente il significato di subnormale, con valore peggiorativo dunque. Il termine handicappato designa ogni persona incapace di garantirsi per proprio conto, in tutto od in parte, la necessita' di una vita individuale e/o sociale normale, in ragione di una deficienza, congenita o non, delle sue capacita' fisiche o mentali. E' in tale contesto che debbono essere inseriti i concetti di disabilita' ed invalidita'.
La disabilita' e' l'espressione fenomenologica del danno, indicante perdita o riduzione di funzioni specifiche derivanti da un danno, ovvero da una patologia di uno o piu' organi.
Quello di invalidita', invece, e' un concetto prettamente giuridico, atto ad accertare che, sulla base del danno, si e' prodotta una disabilita' che ha, quale conseguenza, quella di impedire all'individuo l'inserimento in alcune attivita' produttive, rendendo cosi' necessario, in alcuni casi, il ricorso a forme di collocamento protetto.
Dal punto di vista legislativo, per handicappato si intende la persona che, in seguito ad un evento morboso o traumatico (intervenuto in epoca pre-, per/o post-natale), presenti una menomazione delle proprie condizioni fisiche, psichiche o sensoriali, e, pertanto, sia oggetto di, o candidato a, processi di emarginazione.
Il termine handicap deriva dall'inglese hand (mano) e cap (berretto) ed originariamente veniva utilizzato in riferimento ad una competizione sportiva. In seguito, nell'accezione comune, handicap ha trovato, piu' o meno, equivalenza figurativa in una condizione di svantaggio od inferiorita'. Di qui il termine e' entrato a far parte del lessico corrente: dal riferimento al gioco si e' passati, cosi', semanticamente, ad una rappresentazione simbolica di una esperienza della dimensione umana, quella relativa ad una menomazione di tipo fisico o psichico che limita il soggetto nella manifestazione e nello sviluppo di tutte le sue potenzialita' ed abilita' intrinseche.
L'Organizzazione Mondiale della Sanita' definisce l'handicap uno svantaggio che impedisce al soggetto portatore di svolgere il ruolo e di soddisfare le aspettative correlate al suo sesso, alla sua eta', oltre che alla sua condizione sociale all'interno del gruppo di appartenenza. L'approccio ecologico-comportamentale all'handicap sottolinea la stretta interconnessione esistente tra ambiente ed individuo e la conseguente necessita' di intervenire su entrambi i fattori. Tale approccio individua due principi guida:
- a) il determinismo, secondo cui qualsiasi evento, indipendentemente dalla sua natura, puo' essere inserito in una rete, piu' o meno complessa, di rapporti di causa ed effetto, dalla quale l'operatore puo' cogliere le dinamiche che permettono il verificarsi di simili rapporti e, di conseguenza, quelle che producono gli effetti;
- b) l'ambientalismo, secondo cui l'ambiente costituisce il fattore di maggior rilievo ed interesse per quanto attiene all'evoluzione cognitiva e sociale della persona, nella sua suddivisione in: ambiente fisico, normativo e relazionale. L'ambiente fisico fa riferimento all'insieme dei fattori di natura fisica vicini all'individuo e che ne influenzano, per minima o maggior parte, il comportamento. L'ambiente normativo e' la rete di norme e regole che ordinano la vita nei diversi raggruppamenti sociali ed, indirettamente, anche quella del singolo individuo. L'ambiente relazionale, invece, e' dato dall'insieme dei contatti interpersonali che si vengono ad instaurare all'interno di qualsiasi raggruppamento sociale. Per l'approccio ecologico-comportamentale, dunque, handicappato e' colui che incontra notevoli difficolta' nel fornire una risposta adeguata alle piu' ovvie richieste sociali, prevalentemente a causa di danni aventi natura organica. Il soggetto portatore di handicap nasce persona e, in quanto tale, nasce libero, e' un essere libero per natura, ma deve anche diventare e potersi rendere libero. Di qualunque tipo e gravita' possa essere la menomazione che colpisce un essere umano, egli conserva la propria individualita' ed essenza. Malgrado l'infermita' che lo classifica, il cieco, ad esempio, e' e rimane un individuo; come tale egli e' dotato di un suo proprio temperamento ereditario, un suo passato, una storia personale, totalmente diversi dal temperamento, dal passato e dalla storia di un altro individuo, seppur cieco.
La stessa cecita', che accomuna due individui, li pone in relazione solo approssimativamente, giacche' tra essi, in realta', non puo' che esservi una grande differenza data, ad esempio, dal grado di integrazione raggiunto. Non e' possibile negare che l'handicap provoca, nei differenti aspetti dell'esistenza di un singolo, un forte condizionamento. Si consideri, per averne un'idea, il modo in cui il gruppo dei cosiddetti normali si pone e si rapporta nei confronti di un portatore di handicap e si rilevi quanta influenza ed importanza rivestano simili atteggiamenti per la crescita emotiva e culturale di chi li subisce, soprattutto se giovane. L'eta' giovanile, si sa, rappresenta uno dei periodi maggiormente problematici nella vita di ogni individuo, ancorche' venga a trovarsi nella pienezza delle proprie facolta' e potenzialita'. Il confronto costante con gli altri coetanei induce l'adolescente a rivedere continuamente la propria identita', riconsiderando i propri comportamenti e modi di essere anche in rapporto all'ambiente, teso com'e' verso una definitiva costruzione della propria personalita'. E' inutile dire che la mancanza della vista incide, talora significativamente, su un simile processo, fermo restando che i meccanismi che via via si innescano hanno sempre dimensione soggettiva e, soprattutto, peculiarita' connesse con l'eta' in cui e' sopraggiunta la minorazione. Quei giovani il cui passaggio alla cecita' e' recente od in corso, troppo spesso, e, soprattutto, troppo a lungo sostano nello stadio del rifiuto della cecita', perdendosi dietro speranze, purtroppo prive di fondamento, di recupero visivo; tali speranze sono frutto, non di rado, di malintese espressioni di conforto degli oculisti curanti, cui si sommano comportamenti iperprotettivi dei familiari e parenti, e gli atteggiamenti, spesso inconsapevoli, ma non per questo meno dannosi, di compiacente pieta' e compassione di compagni di scuola ed amici.
Il giovane divenuto da poco cieco versa, pertanto, in una condizione che nessuna apertura lascia intravvedere verso una revisione della propria esistenza, la quale andrebbe invece adeguata alle diverse possibilita' offerte dai sensi vicari della vista. Permanendo in questo stadio di indotta condizione di vedente, in contrasto con il reale stato di cecita', il giovane si autoemargina, rifiutando qualsiasi rapporto o legame con ambienti e/o associazioni di ciechi e contestando l'impiego di tutte quelle metodologie e/o strumentazioni che potrebbero parzialmente risolvere, quando non eliminare, buona parte delle difficolta' quotidiane e di inserimento nel mondo del lavoro. Bisognera' offrire a costoro, cosi' come ai ciechi dalla nascita, l'affrancamento dalle negativita' recate dalla minorazione, sia con interventi di recupero della propria immagine (nella dimensione di una riveduta personalita'), compiti questi che dovranno essere affidati ad esperti psicologi e tiflologi, sia attraverso la partecipazione a progetti di riabilitazione personalizzati, che curino particolarmente la mobilita', l'autonomia personale e domestica, e si occupino altresi' del recupero socio-culturale dei giovani minorati della vista, ove questo si renda necessario. Tutti i giovani non vedenti debbono poter trovare in apposite strutture organizzate (come i centri regionali) o nelle specifiche iniziative poste in essere dalle sezioni provinciali dell'I.Ri.Fo.R., quanto loro di fatto necessita. Certo e' che la riabilitazione reale dovra' altresi' superare la strettoia costituita dall'incomprensione ed indifferenza dei familiari di troppi non vedenti, che costituiscono dei veri e propri impedimenti e sono inoltre la causa principale di alterazioni comportamentali e disturbi della personalita' nei giovani.
Negli anni sessanta il giovane non vedente viveva, per certi versi, meno a contatto con la famiglia, trascorreva la propria infanzia in un istituto, in luoghi a volte molto distanti dalle zone di residenza della famiglia. I momenti educativi principali e la socializzazione avvenivano con altri ragazzi non vedenti, o dotati di un basso residuo visivo. Questo regime, che potremmo definire separato, induceva, sulla formazione della personalita' di chi lo subiva, particolari effetti, come il senso di presunta normalita' in ambiente di ciechi e senso di disagio in altri contesti, l'accentuazione di alcuni aspetti subculturali cosi' tipici di ambienti chiusi all'esterno o, ancora, l'enfatizzazione del senso della vista, considerato come "criterio distintivo e classificatorio". In passato solamente alcuni istituti (Bologna, Napoli) avviavano agli studi superiori i giovani piu' capaci e volenterosi, selezionandoli con criteri non sempre plausibili. Tali giovani venivano preparati ad affrontare la "sfida della scuola pubblica" talvolta anche tramite un artificioso prolungamento della scuola elementare interna. I prescelti vedevano cosi' prender forma il sogno di realizzarsi in una professione soddisfacente, evitando cosi' la vita di stenti e frustrazioni alla quale sapevano essere condannati i numerosi non vedenti rinchiusi nelle case di riposo, malauguratamente abbinate agli istituti di educazione. Questo esiguo gruppo di studenti, fortemente motivato, si impegnava fino allo stremo, non solo perche' fallire era vietato, ma anche perche' il profitto richiesto doveva essere sempre maggiore. L'ambiente dell'istituto, pur con tutti i suoi limiti e le sue carenze, offriva ai discenti non soltanto il supporto costituito dall'esperienza degli educatori, ma anche l'esempio ed i preziosi consigli degli studenti delle classi superiori. Inoltre frequentando tutti le medesime scuole pubbliche gli alunni non vedenti trovavano gia' risolti quei molteplici problemi che un qualsiasi non vedente ancora oggi incontra qualora si presenti per primo in un ambiente che ne ignori totalmente la specifica realta'. Due eventi estremamente positivi intervennero, alla fine degli anni cinquanta, inizio anni sessanta, a modificare radicalmente la situazione: l'aprirsi per il non vedente di ampie possibilita' di lavoro nei campi del centralinismo e del massaggio, e l'estensione dell'obbligo scolastico alla terza media. E' questo, apparentemente, il momento piu' florido per gli istituti: ovunque si istituiscono sezioni di scuola media speciale, classi speciali della scuola elementare riservate agli ipovedenti, classi differenziate per pluriminorati, corsi per massofisioterapisti e centralinisti.
Di conseguenza aumentano anche le occasioni di occupazione per i lavoratori diplomati ed i laureati ciechi: tuttavia, essendo necessari pochi esami d'universita' per ottenere una supplenza nella nuova scuola media, vi fu, di fatto, l'immissione nell'insegnamento di personale privo di specializzazione alcuna e, risulta superfluo dirlo, totalmente ignorante in materia tiflologica. In seguito con il boom economico le industrie italiane ed i servizi iniziarono a necessitare di tecnici e, piu' in generale, di personale con un piu' ampio ed elevato bagaglio di competenze, cosicche' la scolarizzazione, non solo quella dell'obbligo, fini' col crescere rapidamente. Venne poi l'ondata di contestazione che, sulla scia di quanto accaduto negli Stati Uniti ed in Francia, investi' nell'autunno del 1968 anche il mondo studentesco italiano, penetrando, incredibilmente, anche nei chiusi ambienti degli istituti per ciechi, che pure, sino ad allora, si erano dimostrati totalmente avulsi dalla realta' esterna, apatici ad ogni influenza ed a qualsiasi forma di fermento. Tuttavia nessuno ebbe la tendenza a cogliere cio' che di positivo vi era in questa contestazione: i componenti i consigli di amministrazione, i docenti e gli educatori si limitarono, dal canto loro, a stigmatizzare gli eccessi e la superficialita' di alcuni comportamenti studenteschi e la mancanza di un preciso progetto. Intanto la realta' italiana andava mutando con ben altro ritmo, dando origine a quell'insieme di esperienze e sollecitazioni senza cui, certamente, l'integrazione scolastica non avrebbe mai potuto avere un suo inizio.
Nei primi anni settanta si verificarono alcuni casi di frequenza illegale della scuola pubblica, sulla base dell'accettazione volontaristica di alcuni insegnanti e direttori didattici. Solo nel 1976 fu varata dal Parlamento la legge 360, la prima a riconoscere anche ai ciechi il diritto sancito dalla Costituzione di frequentare la scuola di tutti e che autorizzo' gli enti locali ad intervenire a sostegno dell'integrazione scolastica.
L'integrazione scolastica e' oggi, dunque, una realta', ma presenta ancora problemi e difficolta'; inoltre, solo pochi istituti a tutt'oggi riescono a svolgere il ruolo di supporto agli studenti inseriti nelle classi ordinarie della scuola comune.
Il diploma di maturita' non offre attualmente, ai ciechi, alcuna professionalita' utilizzabile nel mondo del lavoro; le prospettive piu' consone oggi sono date dalla frequenza di corsi di laurea o di corsi per programmatori elettronici. Di fatto, pero', accade spesso che i giovani finiscano per seguire un corso di formazione professionale tradizionale, soprattutto quello per centralinista, al quale avrebbero potuto accedere con la sola licenza media. Se e' vero che la cultura e' cio' che consente ad un uomo di essere definito veramente tale, giacche' essa ha un immenso valore formativo e prescinde dall'attivita' che si svolge o ci si trova a dover svolgere, e' altrettanto vero che non si puo' restare indifferenti di fronte ai troppi abbandoni dell'universita' ed ai molti laureati non vedenti costretti ad una soluzione lavorativa che resta di ripiego. La legge 120 del marzo 1991 apre tuttavia nuove strade, almeno sulla carta; sta ora ai giovani, coadiuvati dalle strutture dell'UIC, saper ricercare, sperimentare ed aprire quei nuovi spazi, tanto desiderati, nel mondo del lavoro.
Ma cosa possiamo dire del grado di integrazione sociale del giovane degli anni novanta?
Ancora oggi la maggior parte dei giovani non vedenti si trova a realizzare i propri rapporti sociali e/o affettivi, prevalentemente con altri non vedenti.
La societa' odierna si dimostra ancora estremamente rigida, inadatta ed impreparata ad accogliere la diversita' in modo realmente rispettoso; sara' tuttavia soltanto l'integrazione sociale che potra' produrre una vera e propria crescita civile, la quale non potra' certo in alcun modo provenire da astratte affermazioni di principio. In questa societa', cosi' piena di pregiudizi, l'integrazione sociale sembra arrecare, piu' che benefici, pesi, doveri ed impegni gravosi. Vi e' attualmente una generazione di non vedenti che, senza tregua, ha dovuto e deve ancora confrontarsi, giorno dopo giorno, con i vedenti, una generazione che viene continuamente giudicata secondo parametri di presunta normalita'. Vi sono ciechi che vivono ed altri che hanno vissuto nell'infanzia un duro apprendistato alla vita sociale nella comunita' dei vedenti. E purtroppo alle soglie del duemila, i ciechi, proprio come gli apprendisti del Medioevo, si vedono costretti, prima di essere accettati, a produrre il proprio capolavoro per questa societa'. Questo fanno ostinatamente ed istintivamente tutti coloro che hanno spirito combattivo e che, in alcun modo, non rinunceranno a convincere.
Cosi' il cieco impara a sviluppare delle capacita' personali, generalmente nella sfera intellettuale, che lo renderanno popolare e ben accetto ad un gruppo di compagni con i quali, nell'adolescenza, stringera' delle solide intese, per lui molto utili. La prima festa, il primo concerto rock, la prima serata in discoteca, o in un pub, rappresentano tappe fondamentali verso una propria autonomia e la socializzazione. Sono solo alcuni esempi di occasioni offerte al giovane non vedente di incontri sociali e di esperienze comuni con i coetanei vedenti. Si tratta di stimoli importantissimi per il raggiungimento di obiettivi che dapprima sembravano a dir poco inimmaginabili; l'integrazione, dal canto suo, si dimostrera' tanto piu' stimolante qualora il cieco riesca ad ottenere, dal gruppo dei normodotati, attestazioni di valore individuale che prescindano dai limiti dell'handicap fisico. L'esercizio di determinate liberta', l'adesione alle mode del momento, soprattutto l'adozione di quel determinato look presuppongono un grado abbastanza elevato di integrazione, nel gruppo dei normodotati, tale da consentire al minorato della vista di ricevere consigli e suggerimenti dai coetanei. Cio' e' tanto piu' vero ed importante per le ragazze, che non debbono seguire le mode che talora vorrebbero imporre loro i genitori, molti dei quali mostrano ancor oggi d'esser preoccupati di far rientrare la propria figlia cieca in quel ruolo consolidato e stereotipato di signorina misuratamente colta, modesta, docile e rigorosamente asessuata. Naturalmente esistono ancora diversi ostacoli che pongono limiti all'integrazione ed alla socializzazione di un ragazzo non vedente in un gruppo di coetanei e che finiscono per determinarne l'isolamento al di fuori, per esempio, del contesto strettamente scolastico. Vi sono cause soggettive, di maturita', di timidezza; vi sono cause ambientali, che hanno quale conseguenza una aprioristica emarginazione del diverso. Nelle dinamiche scolastiche, poi, non di rado il cieco e' riguardato, dai propri compagni, come il cocco dell'insegnante, e, per questa ragione, si trova ad essere escluso da quei riti trasgressivi che tanto legano gli adolescenti tra di loro. Il ragazzo cieco, come testimonia anche l'indagine Doxa, sara' tanto piu' bene accetto dal gruppo dei coetanei vedenti, quanto piu' sapra' rendersi autonomo e non essere di peso. Cosi' si esprimono infatti alcuni degli intervistati: "Per l'amicizia con un cieco non credo vi siano grosse difficolta' cieco puo' diventare una specie di palla al piede, un rapporto un po' limitante per chi ci vede".
3. Qualche passo indietro
Da circa sette anni, con la Presidenza Daniele, l'Unione Italiana Ciechi ha dato un notevole impulso alla trattazione ed all'approfondimento delle tematiche inerenti ai giovani non vedenti. Nel 1986 e' stato organizzato il primo Convegno Nazionale sui problemi dei giovani, al quale e' poi seguita la costituzione di una commissione giovani incaricata di organizzare a Rimini, nel 1987, un secondo Convegno Nazionale dal titolo "Il giovane cieco verso una nuova dimensione nella societa' odierna". Dopo Rimini la commissione assunse le caratteristiche proprie di un Comitato Nazionale Giovani; a questo gruppo venne affidato il compito di organizzare seminari di studio, redigere la rivista giovanile "Pub", lavorare per la costituzione di una struttura a tre livelli dei comitati dei giovani, predisporre un questionario da inviare a tutti i giovani. Negli anni successivi la commissione ideo' ed organizzo' ben tre seminari: il primo (1988) servi' a fare il punto sulle attivita' svolte dai comitati gia' costituiti; un secondo seminario (1989) affronto' una tematica piuttosto nuova, quella del turismo sociale, e vide la partecipazione di alcuni relatori stranieri; con il terzo seminario i giovani tornarono a discutere di istruzione superiore, formazione professionale e nuovi sbocchi lavorativi. Va inoltre qui ricordato che, in occasione del XVII Congresso dell'Unione Italiana Ciechi, vi fu una sezione di lavoro dedicata alle problematiche dei giovani.
4. La struttura a tre livelli dei comitati giovanili
La struttura a tre livelli (provinciale, regionale e nazionale) ha stentato molto a decollare; sono stati necessari ben cinque anni perche' si rendesse possibile la costituzione di un vero e proprio Comitato Nazionale Giovani, formato secondo quanto disposto dall'articolo 63 bis (ex articolo 14) del regolamento generale.
5. Comitato provinciale dei giovani
Per ogni sezione provinciale ed intercomunale e' costituito un comitato sezionale giovani composto da soci effettivi, eletti dai giovani appartenenti alle sezioni, in numero di tre per i Consigli con cinque componenti, in numero di cinque per i consigli con sette o nove componenti, in numero di sette per i consigli con undici o quindici componenti. Ogni comitato elegge nel suo seno il presidente. Hanno diritto all'elettorato attivo e passivo, relativamente ai comitati giovanili, quei soci effettivi che non abbiano ancora compiuto il trentesimo anno di eta'. I comitati giovani durano in carica quanto l'organo presso il quale sono costituiti. Nell'ambito dei bilanci preventivi dei consigli sezionali sono previsti specifici stanziamenti per il finanziamento delle iniziative in favore dei giovani.
5.1 Annotazioni
I comitati provinciali dei giovani sono tenuti a:
- 1) Organizzare, in accordo con i dirigenti della sezione presso la quale sono costituiti, iniziative di vario genere (ricreativo, turistico, culturale, ludico-sportivo ecc.) finalizzate ad una sempre maggiore partecipazione e ad una crescente autonomia dei giovani, soprattutto di coloro che dimostrano di aver raggiunto un basso, se non nullo, livello di integrazione sociale;
- 2) Insistere presso i dirigenti locali affinche' accettino di fatto la partecipazione dei giovani alla vita ed alle attivita' della sezione favorendo, altresi', il loro operato, mettendo a disposizione dei componenti il comitato giovani le strutture associative (locali per incontri periodici, uso del telefono, elenchi dei soci giovani, obiettori di coscienza o volontari);
- 3) Segnalare ai dirigenti sezionali casi particolari di giovani bisognosi di tempestivi interventi da parte di esperti psicologi, tiflologi o di assistenti sociali;
- 4) Adoperarsi al fine di conoscere persone non vedenti non iscritte all'associazione;
- 5) Diffondere il piu' possibile, tra la base, la rivista giovanile "Pub", che va considerata quale sede naturale di tutti i dibattiti interni ai diversi comitati giovani e quale fonte insostituibile di informazione sulle attivita' degli stessi comitati;
- 6) Promuovere gemellaggi con altre sezioni provinciali, anche di regioni diverse;
- 7) Convocare, almeno una volta l'anno, un'assemblea di tutti i soci giovani anche al fine di dibattere ampiamente i temi trattati nel corso di seminari nazionali od interregionali.
6. Comitato intersezionale dei giovani
Il Comitato giovani, su proposta delle sezioni interessate, e su determinazione del competente consiglio regionale, puo' essere intersezionale. In questo caso il numero dei componenti il comitato e' rapportato al consiglio sezionale con il maggior numero di componenti. Hanno diritto all'elettorato attivo e passivo, relativamente ai comitati giovani, quei soci effettivi che non abbiano compiuto i trent'anni di eta'. Ciascun comitato intersezionale provvede all'elezione, nel suo seno, di un presidente. Il comitato intersezionale resta in carica quanto gli organi presso i quali e' costituito.
6.1 Annotazioni
I comitati intersezionali sono tenuti a svolgere gli stessi compiti e ad adempiere alle medesime funzioni dei comitati provinciali.
7. Comitato regionale dei giovani
Per ogni consiglio regionale e' costituito un comitato regionale giovani composto da soci effettivi nominati in numero di uno per ciascun comitato sezionale od intersezionale. Ciascun comitato regionale elegge nel proprio seno il presidente. Hanno diritto all'elettorato attivo e passivo, relativamente ai comitati giovani, quei soci effettivi che non abbiano compiuto i trent'anni di eta'. Il comitato regionale dura in carica quanto l'organo presso il quale e' costituito. Nell'ambito dei bilanci preventivi dei consigli regionali sono previsti specifici stanziamenti per il finanziamento delle iniziative a favore dei giovani.
7.1 Annotazioni
- 1) I comitati regionali debbono fungere da tramite tra il comitato nazionale ed i comitati provinciali;
- 2) Compito dei comitati regionali e' far proprie le schede formative al fine di poterle discutere, anche con i rappresentanti provinciali dei giovani, con cognizione di causa;
- 3) I comitati regionali sono tenuti a riunire, almeno una volta l'anno, l'assemblea regionale dei giovani, costituita da tutti i componenti i comitati provinciali, anche al fine di coordinare le attivita';
- 4) E' opportuno che, periodicamente, vengano organizzati seminari interregionali, aperti a tutti i componenti i comitati provinciali;
- 5) Il comitato regionale non puo', in alcun caso, avere rapporti diretti con la base associativa; tali rapporti dovranno passare necessariamente attraverso la mediazione dei comitati provinciali;
- 6) I componenti i comitati regionali sono invitati ad arricchire i periodici associativi, in particolare la rivista giovanile "Pub", con scritti e documenti relativi alle attivita' dei diversi comitati di appartenenza.
8. Comitato nazionale dei giovani
E' costituito un comitato nazionale giovani composto da sette soci effettivi, di cui quattro eletti tra i presidenti dei comitati regionali giovani, riuniti in seduta comune, e tre nominati dalla Direzione Nazionale. Il comitato nazionale giovani riunisce, almeno una volta l'anno, i presidenti dei comitati regionali giovani, per il coordinamento delle iniziative. Il comitato nazionale elegge nel suo seno il coordinatore. Possono essere componenti il comitato nazionale quei soci effettivi che non abbiano ancora compiuto il trentesimo anno di eta'. Il comitato nazionale dura in carica quanto l'organo presso il quale e' costituito. Nell'ambito dei bilanci preventivi della Presidenza Nazionale sono previsti specifici stanziamenti per il finanziamento delle iniziative a favore dei giovani.
8.1 Annotazioni
- 1) Compito dei componenti il comitato nazionale giovani e' mettere a punto il materiale relativo alle problematiche dei giovani;
- 2) I componenti il comitato sono tenuti a dare, a tale materiale, la piu' ampia diffusione possibile, tramite la stampa e l'organizzazione di seminari, ai quali sarebbe opportuno che partecipassero alcuni familiari di non vedenti, al fine di renderli maggiormente edotti circa le problematiche dei loro giovani figli;
- 3) E' opportuno che il comitato nazionale giovani prenda contatto con altre associazioni giovanili operanti nel territorio italiano;
- 4) Ciascun componente il comitato nazionale dovra' tenere contatti frequenti (soprattutto telefonici) con i coordinatori regionali e provinciali dei comitati delle regioni di competenza;
- 5) Ciascun componente il comitato nazionale puo' partecipare alle iniziative realizzate nelle regioni di propria competenza;
- 6) Compito del comitato nazionale e' altresi' prendere contatto con comitati, commissioni, gruppi od associazioni di giovani non vedenti di paesi esteri;
- 7) I componenti il comitato nazionale debbono avere frequenti contatti tra loro, per lo scambio di tutte le esperienze realizzate nell'ambito delle regioni di propria competenza;
- 8) I componenti il comitato nazionale sono tenuti ad informare, con tempestivita', il loro coordinatore in merito alle diverse attivita' che vanno svolgendo nel territorio.
9. Bibliografia
- - Relazione prof. Francesco Barausse al Seminario Nazionale Giovani svoltosi a Tirrenia nei giorni 14, 15 e 16 dicembre 1990: "Analisi delle ragioni che allontanano i giovani non vedenti dagli studi medi superiori ed universitari. Prospettive ed ipotesi di soluzione".
- - Uno sguardo dal buio, di Bruna Sartena
- - I ciechi e la societa', di Pier Henri