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Corriere dei Ciechi

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Numero 9 del 2024

Titolo: SPORT, TURISMO E TEMPO LIBERO- A Parigi con un desiderio che va oltre l’oro

Autore: Alessio Tommasoli


Articolo:
A colloquio con Paolo Camanni, judoka cieco della nazionale paralimpica
Oggi, più che in qualsiasi altra epoca, la parola “diversità” evoca questa definizione: “condizione di chi è considerato da altri, o considera se stesso, estraneo rispetto a una presunta normalità di razza, propensioni sessuali, comportamenti sociali, scelte di vita o condizione fisica”. Una definizione che ci parla di diversità, al plurale, in quanto categorie differenti di una società eterogenea, che cerca di farle convivere, riconoscendole e mantenendole, per poter giungere al vero obiettivo, quello di valorizzarle.
Ma se proviamo a usare la parola “diversità” al singolare, scopriamo immediatamente qualcos’altro: le caratteristiche con cui ognuno di noi nasce, quelle che lo distinguono dagli altri. Ecco, allora, che, dalla diversità sociale cui apparteniamo, emergono delle differenze individuali, che ci rendono unici e irripetibili: li chiamiamo talenti, e sono ciò che emerge da una società, in tutta la loro forza, quando questa riesce nel suo obiettivo di valorizzare la diversità, al plurale e al singolare.
E sono proprio i talenti a confrontarsi nelle competizioni olimpiche, facendo dello sport un metro di comparazione tra le varie società mondiali, in queste dell’agosto 2024, come in tutte quelle passate e future, non importa che si tratti di Olimpiadi o Paralimpiadi. O forse, invece, sì, importa?
Lo abbiamo chiesto a Paolo Camanni, giovane judoka cieco che partecipa alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Con lui, avremmo potuto parlare dell’imminente competizione, delle sue aspettative, del modo in cui un atleta si prepara, fisicamente e psicologicamente, degli avversari più temibili, e di tutto quello che si può chiedere a un atleta che sta per affrontare l’appuntamento più importante della propria vita. E invece, abbiamo cercato di rispondere a questa domanda, perché, a parlare con Paolo, non si riesce mai a restare a galla sulla superficialità, e si entra sempre, inevitabilmente, nel profondo.
Così, quando gli abbiamo chiesto se loro, gli atleti paralimpici, fossero in contatto con gli atleti olimpici e avessero ricevuto da loro dei consigli, ha iniziato ad aprirsi una crepa su qualcosa che Paolo sentiva di non poter nascondere oltre. A partire dalla distinzione tra il judo e tutti gli altri Sport.
No, non ci siamo sentiti molto. Però la cosa bella dello sport che ho scelto di praticare, il judo, è che gli atleti normodotati si possono allenare con gli atleti paralimpici. Nel mio caso, io posso allenarmi con qualsiasi atleta vedente, perché è il tipo di sport che me lo permette, uno sport fatto di contatto fisico, dove la vista è secondaria.
Ovviamente, in alcuni casi sarò svantaggiato, dato che se vedi hai una marcia in più, anche a livello di schemi motori, non avendo alcuna limitazione motoria.
Ma quando ci troviamo lì che combattiamo, l’unica regola è partire entrambi con la presa convenzionale, dopo la quale si può fare qualsiasi mossa lecita, quindi siamo assolutamente alla pari. Ecco perché quando penso al judo, non lo concepisco semplicemente come uno sport inclusivo, ma integrativo.
Io mi sono potuto allenare con la nazionale normodotati che si preparava per le Olimpiadi, provando la soddisfazione e la bellezza di poter fare uno sport alla pari con gli atleti olimpici, pur essendo cieco o ipovedente.
Il judo, dunque, è uno sport che possiede una straordinaria unicità, alla quale Paolo non è giunto per caso, come spesso ci si avvicina a uno sport, ma dopo aver cercato, forse inconsciamente, questa unicità in altre discipline.
Ho praticato anche nuoto e atletica, arrivando fino alla nazionale giovanile. Ma se io voglio correre, ad esempio, ho bisogno di una persona che sia disponibile a farmi da guida, alla quale devo affidarmi totalmente e che sia necessariamente più forte di me: questo significa non avere la libertà di potersi allenare quando si vuole, significa dipendere da qualcuno. Oppure dover dipendere da strutture che abbiano l’accessibilità per permettere a un cieco di praticare quello sport specifico, come, per esempio, il calcio a 5 B1 per non vedenti. Mentre io, col judo, sono completamente libero di allenarmi dove e con chi voglio: parto, prendo il treno, vado a Parma, mi alleno con quel maestro, oppure vado a Milano per allenarmi con un altro. Così ho fatto per prepararmi a Parigi, sfruttando la bellezza di potermi allenare dovunque, libero di scegliere questo o quel maestro in base alla tecnica o alle tattiche che ho scelto di ripassare e rafforzare in vista dell’evento.
Ed ecco che, nel nostro dialogo, ritorna il concetto di differenza, tra uno sport e l’altro, in questo caso. Ma ci viene spontaneo allargare il nostro sguardo, chiedendogli quali siano, per lui, le vere differenze tra Olimpiadi e Paralimpiadi. E qui la crepa sembra allargarsi.
Bisogna partire dall’idea che il messaggio sportivo è lo stesso, perché ogni atleta, per prepararsi, fa dei grandissimi sacrifici e lotta per un obiettivo, per un sogno. Ma nelle Paralimpiadi c’è anche un altro messaggio oltre a quello sportivo, perché l’atleta paralimpico deve superare in più una difficoltà oggettiva.
Per questo, credo che le Paralimpiadi abbiano una marcia in più, perché ci partecipano persone che hanno un obiettivo esistenziale, e lo inseguono andando oltre le difficoltà oggettive, che generalmente ti creano scompensi o ti generano la volontà di startene a casa tranquillo per evitare di affrontare le difficoltà che ti ha riservato la vita.
Parole, quelle di Paolo, che ci portano a chiedergli con una curiosità ancora maggiore cosa ne pensi del sogno che hanno alcuni di unire Olimpiadi e Paralimpiadi in una sola competizione, in nome di un’assoluta inclusione sportiva. E qui la crepa si dilata, aprendo un solco.
Personalmente, per quanto riguarda il judo, a me piacerebbe. E forse sarebbe veramente possibile solo in questo sport. Immagino chi corre i 100 metri solo contro chi corre con la guida: la velocità non potrà mai essere la stessa, a partire dall’allenamento, dove c’è tutto un lavoro di coordinamento, di tempismo, di conoscenza e di fiducia che non basterà mai per gareggiare effettivamente alla pari. Allora credo che non sia necessario fare tutti le stesse cose, non essere tutti uguali, ma piuttosto permetterci di avere pari opportunità. E allora è questa la differenza che può permettere a me atleta paralimpico di essere contento del mio percorso.
Io non credo che debbano fare le Olimpiadi per tutti, ma credo che debbano fare le Olimpiadi e le Paralimpiadi, perché la mia Paralimpiade deve valere come la vostra Olimpiade, dato che gli sforzi sono gli stessi, e, anzi, in alcuni casi sono molti di più.
Ormai il solco è spalancato, e non ci resta che cercare di capire cosa c’è dentro, chiedendogli se, a suo parere, la differenza tra le due competizioni è ancora molto netta.
Credo di sì. C’è ancora molta differenza e c’è molto pietismo verso gli atleti paralimpici da parte di quelli olimpici. Di contro, da parte degli atleti paralimpici, c’è molto astio verso quelli olimpici, quasi come si scambino frasi del tipo: “quei bastardi dei normodotati”, da un lato, e “aiutiamo quei poveretti”, dall’altro. È questo che bisognerebbe cercare di superare, queste barriere culturali. Però si sta andando nella giusta direzione, che può essere quella di chi spera in una Olimpiade e una Paralimpiade fatte nello stesso momento: potrebbe essere una bella idea, soprattutto per far legare gli atleti olimpici a quelli paralimpici, creando delle dinamiche umane, oltre che sportive. In questo modo io avrei l’opportunità di allenarmi con gli altri, andando poi a fare la mia gara, quella paralimpica, senza cercare di partecipare a gare dove partirei già svantaggiato.
Di contro, però, a rendere contemporanee le due competizioni, si corre il rischio che la Paralimpiade venga sottovalutata.
Per quanto la nostra conversazione abbia raggiunto la profondità di un dialogo sulla situazione dell’inclusione nella società italiana e nello sport mondiale, non possiamo dimenticare che Paolo è un ragazzo di poco più di vent’anni che sta per affrontare la sfida più importante della propria vita. Ecco perché, allora, è giusto tornare a quelle domande che abbiamo tralasciato all’inizio, con l’impressione, dopo aver ascoltato tutte le sue parole, che non siano proprio superficiali come avevamo pensato.
Questa è la mia prima Paralimpiade e le emozioni sono tante, anche se non ho ancora realizzato appieno quello che sto per vivere. Penso che solo quando arriverò a Parigi inizierò a rendermi conto di dove mi trovo. Forse perché è il culmine di un percorso così lungo e intenso che mi sembra impossibile di averlo compiuto tutto.
Due anni fa, con il mio maestro Gaspare Mazzeo, siamo partiti dal cercare di non perdere nei primi 30 secondi, provando a resistere il più possibile ai primi combattimenti, poi sono arrivate le prime competizioni nazionali, il grande traguardo dell’ingresso nel gruppo sportivo delle Fiamme Gialle, col cui sostegno economico e umano sono arrivato alle competizioni internazionali e alle prime medaglie. E ora alle Paralimpiadi ci vado con l’obiettivo di scendere dal tatami (il tappeto dove si combatte) consapevole di aver dato il massimo.
Una storia di vita, fatta di emozioni, sacrifici, successi e sfide, con se stesso, prima ancora che con gli altri: una storia di consapevolezza, che ci ha fatto capire come, soprattutto per l’aspetto dell’inclusione, una competizione sportiva sia inevitabilmente lo specchio della situazione sociale, italiana e mondiale. Non importa che si tratti di Olimpiadi o Paralimpiadi, perché, ora ne siamo convinti, non si possono scindere.



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