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Corriere dei Ciechi

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Numero 7-8 del 2024

Titolo: ATTUALITÀ- Le fondamenta sportive di una democrazia

Autore: Carmelo Di Gesaro


Articolo:
Esiste un nesso causale tra la crescita di una democrazia e lo sport? A questa domanda si può rispondere quasi con certezza, affrontando un piccolo viaggio all'interno di alcune significative vicende sportive del '900. Tra queste, invero, troviamo atti e gesti simbolici, azioni e manifestazioni a furor di popolo la cui ricaduta è stata fondamentale per il consolidamento della forma di governo più auspicata dal sentire comune: la democrazia.
La democrazia, infatti, intesa come forma di governo in cui il potere viene esercitato dal popolo attraverso un'organizzazione basata sull'emanazione di leggi, non è sempre rappresentativa delle istanze suggerite dalle popolazioni regolatrici. Come fare allora? Come mettere a punto un sistema nazione? Come segnare un punto capace di soddisfare le voci spesso inascoltate delle minoranze?
Lo sport, in questo contesto, si rivela uno strumento potente e vero martello del potere. Grazie alla sua capacità di unire e ispirare, può diventare il terreno comune su cui costruire un dialogo inclusivo, promuovendo valori di equità, rispetto e collaborazione. Scopriremo insieme come eventi sportivi e figure emblematiche abbiano svolto un ruolo cruciale nel superare barriere sociali e culturali, contribuendo così alla costruzione di società più democratiche e coese.
Vedremo adesso come la velocità di crescita di una democrazia, perciò, passi anche da imprese che vanno al di là delle politiche temerarie dei singoli o dalle invasioni calcolate a tavolino. Scopriremo insieme come lo sport sia stato il motore di cambiamenti epocali, e lo scenario in cui sono piombate idee in grado di influenzare contesti ben più ampi dello stadio che le ha viste palesarsi. Ci affacceremo dalle curve remote della storia per ripercorrere eventi che in taluni casi hanno preceduto e/o accompagnato l'evoluzione democratica di Stati immaturi e, perché no, impermeabili al cambiamento.
Una piccola e doverosa premessa d'approccio alla lettura. A tale visione positiva si contrappone inevitabilmente ciò che totalitarismi e dittature fanno e hanno fatto dello sport. In questi contesti, atleti e discipline assumono il compito di amplificare i poteri dell'impositore di turno, spingendo il pedale sul meccanismo moltiplicativo del sentimento collettivo e mutandolo in megafono del potere. Essendo poi un fenomeno di massa, è facile comprendere quanto possa essere determinante per veicolare una visione del mondo non sempre coerente con la realtà. È semplice, dunque, intravedere il buio che tale effetto può generare in assenza di una scintilla democratica. Tuttavia, abbiamo la prova, e qui la racconteremo, di quanto possa essere determinante l'impatto di una manifestazione sportiva nel far risplendere la luce della democrazia persino nelle situazioni più oscure.
In questo quadro, resta inteso che l'elemento comune e premiante di qualsivoglia competizione è il suo pubblico. Centinaia di persone in cerca di svago si avvicinano agli eventi con animo trasparente, carichi solo della leggerezza emotiva della passione. Un trasporto che li rende altresì uniti e deboli allo stesso tempo, come solo la forza del gruppo riesce a fare. Negli stadi, infatti, ci si fa trascinare, guidare e coinvolgere dagli accadimenti in modalità irripetibili in altri contesti.
Per fare un esempio, sono ancora vive nella memoria le celebrazioni legate alla scomparsa di Diego Maradona. Giorni e giorni di lutto, di cui tre proclamati ufficialmente nella sua nazione, per commemorare le gesta atletiche di uno sportivo dal privato torbido. Su questo esempio possiamo soffermarci per sottolineare la prima differenza tra il contesto sportivo e qualsiasi altro mondo. Pensiamo, per dire, al tracollo che tanti personaggi del cinema hanno avuto in seguito allo scandalo del #MeToo. A Kevin Spacey non è stato perdonato nulla, neppure in presenza di una sentenza di assoluzione. Maradona, infatti, nella sua semplicità e senza mai nascondere le oscurità che lo hanno contraddistinto, è stato un veicolo politico-culturale capace di incidere nella massa più di quanto riuscirebbero a fare centinaia e centinaia di girotondi di morettiana memoria. Messaggi e gesta di un atleta, non di un reazionario, un politico, un movimentista! Un fenomeno di massa, icona indiscussa del pallone, che mediante lo sport ha restituito voce, caricato di passione e risvegliato sentimenti sopiti di milioni di persone in modo trasversale, universale.
Maradona è stato per i napoletani e per gli argentini un elemento di orgoglio, di unità, di rinascita. Un mezzo di contrasto alla povertà, all'infamia e alla rassegnazione sociale. Napoli e i napoletani, spesso trascurati dai media se non per raccontare malefatte e tragedie di un territorio oppresso, trovarono in lui un simbolo di riscatto. Chi c'era se lo ricorderà sicuramente. Ciononostante vi starete chiedendo: ma cosa c'entra questo con la democrazia?
Maradona ha impersonificato il ruolo che Totò assegnava alla morte in una sua poesia: "una livella". Attraverso uno sport, una grande capitale considerata di serie B è arrivata in serie A, la competizione in cui esiste anche la bellezza. Napoli, con la sua capacità di gioire, ha dimostrato di meritare ciò che è sempre stata: la città della passione, dell'altruismo, della coesione sociale e della ribellione. Una città capace di liberarsi dai nazisti in solitaria, che con Diego Armando Maradona si è rimessa in "pace" con la restante parte del paese.
Quindi, cosa c'entra tutto questo con la democrazia? La risposta risiede nel potere simbolico di queste figure e nella capacità dello sport di unire e mobilitare le masse, fornendo un senso di identità e di orgoglio collettivo. Quando una città o una nazione riescono a sentirsi rappresentate e valorizzate attraverso lo sport, i sentimenti di appartenenza e coesione sociale ne escono rafforzati. E questi sono gli stessi sentimenti che possono alimentare e sostenere una democrazia, creando un terreno fertile per la partecipazione attiva e l'impegno civico.
Facciamo un passo indietro, non dico nulla di nuovo, nell'America degli anni '60 e '70, era forte e pervasivo il sentimento di disprezzo verso la comunità nera. Nonostante le proteste e le azioni di supporto non fossero assenti, c'era sempre qualcosa che mancava. Era infatti flebile quell'elemento capace di superare i confini e indignare definitivamente l'opinione pubblica. Ci pensarono allora, ancora una volta, due sportivi.
Lo scenario è quello delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, quando Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d'oro e di bronzo ai 200 metri, una volta sul podio e ricevuta la medaglia, alzarono inaspettatamente il pugno, compiendo uno dei gesti più iconici del Novecento. I due atleti, infatti, decisero di illuminare la battaglia per i diritti civili, specialmente a favore degli afroamericani. Alla premiazione arrivarono senza scarpe, indossando solo calzini neri a simboleggiare la povertà. In aggiunta, decisero di indossare un guanto nero, simbolo del Black Power, e puntarlo verso il cielo nel momento in cui allo stadio partirono le prime note dell'inno americano "The Star-Spangled Banner". «Quel gesto era mio, l'ho pensato, voluto. Mi serviva, ci serviva» disse Smith nel 1998. Questo atto, apparentemente semplice ma altrettanto rivoluzionario, che non passò inosservato, avveniva in un contesto di forte tensione sociale e tumultuoso. Pensate nello stesso anno, precisamente il 2 ottobre, a Città del Messico, capitale della nazione ospitante della competizione, centinaia di studenti venivano uccisi dalla polizia durante una pacifica manifestazione (massacro di Tlatelolco o di piazza delle Tre culture). Negli Stati Uniti, le persone di colore venivano ripetutamente brutalizzate e in aprile veniva assassinato uno dei leader della protesta, Martin Luther King. Nel frattempo, in Sudafrica, Nelson Mandela marciva in carcere e la Rhodesia stava affrontando una terribile guerra civile. E anche ai due atleti non andò bene. Per ciò che avevano fatto, Smith e Carlos, subirono minacce di morte e l'ingiusta espulsione dalle Olimpiadi oltre che dalla nazionale statunitense. La loro carriera si interruppe prematuramente, eppure contribuirono a cambiare la storia. Oggi sono considerati due eroi, non solo dalle comunità afroamericane ma anche a livello globale. Sono un esempio vivido di come lo sport possa influenzare il mondo e promuovere cambiamenti sociali significativi.
Importante e sintomatico fu il ruolo del rugby nella riappacificazione del Sud Africa avvenuto successivamente alla liberazione di Nelson Mandela e alla sua elezione alla carica di Presidente della nazione. Mandela, infatti, dopo 27 anni di prigionia per aver combattuto l'apartheid, la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo bianco del paese, rimasta in vigore fino al 1991, veniva finalmente rilasciato diventando il primo Presidente nero della storia del Sud Africa. 44 milioni di persone che per decenni avevano subito la pressione di una minoranza che li privava di qualsiasi diritto, dovevano adesso imparare a convivere per ricominciare. Su iniziativa dello stesso Presidente e in occasione dei mondiali di rugby del 1995 che si sarebbero svolti proprio in Sud Africa, passò il nuovo inizio. Nelson Mandela, motivando e coinvolgendo il capitano della squadra, il bianco e biondo Francois Pienaar, gli "ordinò" di accompagnarlo nell'impresa di unificare il paese conquistando una vittoria che sarebbe stata rivoluzionaria. Un'impresa sportiva impensabile fino ad allora e che doveva necessariamente riuscire in entrambe le direzioni. Erano infatti un bianco e un nero che lottavano con lo stesso orizzonte: uno a guida della squadra e l'altro per il futuro del paese, con l'intento di unire un popolo che non era mai stato uno, attraverso le emozioni.
Al grido di "one team, one nation", i due si fanno carico della sfida: uno politicamente e l'altro sportivamente. Gli Springboks, che schieravano solo un giocatore meticcio, sostenuti sempre più dai neri, attratti ora da uno sport fino ad allora appannaggio esclusivo dei bianchi, spingono dagli spalti partita dopo partita. Una vittoria dopo l'altra li porta a una finale epica contro i favoritissimi campioni della Nuova Zelanda. Ed è qui che si compie il miracolo. I sudafricani, bianchi e neri, alzano simbolicamente la coppa della riappacificazione e al grido di 'Nelson, Nelson, Nelson…' festeggiano per giorni sotto la stessa bandiera.
Con queste tre storie abbiamo dunque evidenziato la centralità e il ruolo che lo sport riveste in contesti assolutamente diversi tra loro, con atleti e discipline variabili ma che hanno un denominatore comune come molla: la scintilla della democrazia e l'uguaglianza dei diritti. Abbiamo constatato cosa significhi la partecipazione in periodi non così lontani dai nostri, e gli effetti positivi che può generare anche nelle popolazioni inclini a respingere la coesione scambiandola per "tradizione". Abbiamo il dovere di riconoscere allo sport il ruolo di motore, se non proprio l'essere uno dei pilastri, della democrazia.



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